La dada Rosa e il dado Gioacchino. Lei, tutti i pomeriggi alle sedici, suonava alla porta di casa nostra per prendersi un caffè con mia mamma, mi risuona ancora il suo accento, un ibrido tra Lazio e Campania, difatti lei era nata a Gaeta. Io, bambino, spesso interrompevo lo studio per fare merenda, ma soprattutto per assistere a quello che era un rito pagano celebrato con una moka fumante, due tazzine di ceramica e una zuccheriera di “argentone”, le chiacchiere gossippate con cifratura end to end, lo scambio di fotoromanzi (vera icona degli anni ’70 – ’80) e quel tono di voce che si abbassava perentoriamente quando il discorso presumibilmente si faceva serio. Le vicende, i mobili di casa, i traslochi, gli scatoloni colmi di un’accozzaglia di oggetti, hanno nascosto quel kit da caffè per decine di anni, fino a quando un insindacabile sentenza del destino non li ha riportati alla luce. Ora li ho ricomposti in formazione evocativa in un angolo della cucina di casa mia, a volte credo di sentire i pissi pissi bau bau di mia mamma e della dada Rosa, gli echi del borbottio della moka, mi appare l’immagine di un Lancio Story davanti al terzo occhio, la puntina del tempo salta come sopra un disco graffiato dal ricordo indelebile.
Il dado era il marito della dada ovviamente. Un gigante buono, una vita passata in auto come tassista, originario di Roma, sviluppò una fede incrollabile nel Bologna FC e scelse me (avevo 8 anni) come suo pupillo da instradare nella passione per la squadra felsinea. Quando si giocava in casa mi portava mano nella mano allo stadio mentre discutevamo delle formazioni che sarebbero scese in campo, comunque sia lui portava con sè la radiolina per aggiornarsi sui risultati dagli altri campi attraverso “Tutto il calcio minuto per minuto”. Già, la radiolina: un simbolo maschile per gli uomini degli anni ’80, quella che dopo pochi giorni aveva la linguetta del vano batterie rotta e si teneva tutto insieme con lo scotch, quella che toccando la rotellina del volume crepitava come un fuoco d’artificio, quella che più era “sdozza” (malmessa) più ti ci affezionavi, quella che se era stereo eri un fighetto, quella che la Domenica lui con l’auricolare e la moglie incazzata, quella che trasmetteva bella musica e non solo musica che doveva piacerti obbligatoriamente.
Qualche mese fa, a Porretta Terme, in un mercato/magazzino di cose usate, ho comperato per 10 euro una radio del genere di cui sopra e quando mi capita di ascoltarla, un gigante buono mi prende per mano, mi accompagna in un sogno e mi racconta di quel gol all’ultimo minuto di Gaetano Scirea che valse la vittoria della Juve e la puntina del tempo salta come sopra un disco graffiato dal ricordo indelebile.