Esbjorn Svennson non lo ricordo come un pianista jazz, semmai rammento le sue melodie intime dal sapore bucolico o le rabbiose sferzate durante i brani hypnojazzrock degli “Esbjorn Svennson Trio” dei quali cito un aneddoto di una decina d’anni fa: ero al Teatro delle Muse di Ancona, per la prima volta assistevo ad un concerto degli E.S.T., trio di cui avevo sentito solamente parlare da qualche “talent digger”. Dopo i primi quattro brani metà del pubblico lasciò la sala sgomento a causa del suono non omologabile della band, contrabbasso (Dan Berglund) con effetti stile chitarra elettrica, batteria (Magnus Öström) che a volte si rigirava in quattro quarti marziali dal profumo industriale e, in una miscellanea avant garde, le rasoiate di Esbjorn che ad un tratto si facevano baci sulla fronte di un bambino addormentato. L’altra metà del pubblico che rimase alle Muse si alzò in piedi come ad un concerto rock e cominciò a saltare, agitare le mani e, verso la fine, anche ballare. Io rimasi fino al termine ed uscire sudati da un live jazz in un teatro può far intendere cosa potessero trasmettere quei tre Signori quando imbracciavano gli strumenti. Credo di aver visto l’ultimo concerto degli E.S.T. a Carpi, prima della prematura scomparsa del pianista che non ritornò mai da un’immersione subacquea al largo delle coste della Svezia. L’ho pensato tanto in questi anni e, con l’uscita di “Live in London” nei giorni scorsi, mi sono rituffato nelle melodie che, in fondo, erano già parte di me sin da quel concerto di cui sopra. “Believe, Beleft, Below” è una ballata di una dolcezza sublime, le prime otto note che risuonano sono già uno standard, ma Esbjorn in questa esecuzione non ci fa mancare proprio nulla, armonie scorrono come ruscelli che scendono dalla cima di una melodia illuminata, si passa da scale blues ad accordi vagamente dissonanti, l’intenzione dinamica del piano cambia varie volte nei sette minuti e ventiquattro secondi di nutellosa e melensa atmosfera, ma il pezzo non perde nemmeno per un attimo di coerenza esecutiva. Oltre all’intelligenza cerebrale e quella emotiva, ricordo Esbjörn come l’uomo dall’intelligenza falangea, perchè con quelle mani mi ha fatto gettare uno sguardo sul suo caleidoscopico mondo interpretativo.