Machisseloricorda quanti anni fa. Rammento solamente che uscii dal lavoro nel primo pomeriggio e non sapevo esattamente cosa fare, verso le sei di sera presi la macchina e partii per Porretta terme in modalità soul, mica lessi chi si esibiva quella sera al festival, probabilmente cercavo solo un pretesto per farmi un paio di pinte e togliermi di mezzo dall’immonda mondanità del quotidiano, faceva da garante il coriandolico concerto funk di Maceo Parker al quale avevo assistito l’anno precedente sempre nella particolare cornice del Porretta Soul Festival. A parte il fatto che “coriandolico” richiama un po’ “petaloso”, come da accordi mi feci due pinte di birra appena arrivato (le altre le tralasciamo per ovvi motivi etilometrici) e mi accomodai come un ultras in balaustra (essì, era l’unico posto rimasto) al Rufus Thomas Park (brividi) aspettando l’inizio dello spettacolo. Dopo un paio d’ore di modesti musicisti inarrivabili, gruppi “spalla” che potevano fare da “lead” a Vasco, cantanti che con la loro voce avevano trapassato il remoto, fiati che ti tatuavano note nel subconscio, arriva il momento del “king” della serata, tale Solomon Burke: gli assistenti di palco portano un vero e proprio trono al centro della scena e, dopo una intro dei musicisti, sale sul palco un Signore (c’è qualche onorificenza letteraria migliore della “S” maiuscola?) dalla stazza quantomeno abbondante che si siede sul trono e impugna il microfono. A posteriori, non avrei mai desiderato così tanto fare il microfono di mestiere. Parte un arpeggio di chitarra e la sua voce inonda le anime degli spettatori come se tutti fossimo anse del suo flusso di emozioni, “Non lasciarmi perdere” diventa il guinzaglio di Solomon per trascinarci a destra e a manca come stracci stesi in balia della bora triestina, ci trasmette il suo amore (peccato non esista una parola più evocativa) rendendoci subdoli adepti dell’abbagliante semplicità del suo talento infinito, recupera la lenza delle parole per trascinare a riva le nostre lacrime. Mi sto lasciando andare, ma non sto esagerando, quella sera Solomon tesseva vita. La leggenda narra che l’album che conteneva quel pezzo meraviglioso valse all’artista il primo grammy della sua vita e che, quando venne invitato a ritirarlo sul palco, apostrofò la platea con la perentoria frase “vi ringrazio di esservi accorti che faccio musica da quarant’anni”, tutti in branda. Qualche anno dopo Solomon, per l’anagrafe, se ne andò, secondo me non trovò miglior maniera per imprimere la sua presenza nel cuore di chi lo sa ascoltare. A fine concerto, dopo circa 47 bis, Sol decise di riproporre questa elegia ma, non contento di averci insegnato il tutto, invitò gli spettatori, soprattutto i bambini, a salire sul palco al suo fianco a contemplare insieme a lui la ridondanza dell’anima e dello stare insieme, il suo sorriso luccicò attorno alla perfezione esecutiva di un cantato ultraterreno e la felicità delirante inebriò i nostri sensi spelacchiati. Muovete quelle cazzo di falangi sulla tastiera e chiamatelo a voi.