Un veloce commento su Luna: oltre al suo spin off onirico vi assicuro che il tronco è una persona tetragona e molto intelligente. Insomma, la tipica donna che mi scarta a priori. Evabbè. Statemi in luce. (Filippo Fenara)
Un veloce commento su Luna: oltre al suo spin off onirico vi assicuro che il tronco è una persona tetragona e molto intelligente. Insomma, la tipica donna che mi scarta a priori. Evabbè. Statemi in luce. (Filippo Fenara)
Andre Butterworth aka Copycatt, è un giovanissimo produttore australiano di big beat e di tagli buoni di musica elettronica. Mentre lo ascolto provo un certo bouncin’ e trasferire le mie sensazioni a voi non sarà facile. Lui è violento ed allo stesso tempo assertivo nel suo stile inconfondibile e tecnologico. Ci proverò mandando in onda una delle sue tracce che mi hanno conquistato di più, “Trash” che vi farà scuotere le anche più di un hoola hop…
Bella storia, penserete, ma non finisce qui. Ci tengo almeno a farvi sentire un’altra impronta di questo urbano EP intitolata “Steecey” e, metti caso non vi piaccia, vi spezzerà gli stinchi comunque.
Seguite questo giovane talento australiano se siete fedeli alla downbeat e alla bigbeat come lo sono io, sennò vi lascio affogare volentieri all’ultima malinconia di qualche rocker nostrano spuntato dal tempo. (Filippo Fenara)
E io che mi credevo isolato fuori. A farmi compagnia c’è l’ispirata @monkeypayn che sloga versi bonobici come se non ci fosse un oggi, che si fa beffa del rendersi conto offrendo una sua personale interpretazione dell’attualità, attraverso le sue iperlenti creative. C’è del buono. Statemi in luce. (Filippo Fenara)
L’alma col flanger * s’infrange sull’arenile * d’un avvenire a venire * l’avenger mi è ostile perchè ho stile * sono in danger quando il ranger alliscia il fucile * e non fa cilecca * qua non fa easy * nemmeno per Chewbecca * la strè l’è strecca * per il dado che non lecca * o che stecca la diretta * e aspetta che lo sfasciame si dimetta * mic checka mic checka * t’ammollo una sleppa che ti spezza il rendimento * riepilogo il capitolo in un gomitolo di rime * sovverto il tuo flusso senile * in un silente crescendo * il trend della gang è in aumento * turno off e sei spento * dado, sei spento e nemmeno sento il tuo flebile lamento.
Giacque sulle acque torbide
tracciò impronte sulle nevi morbide
gioì per le messe abbondanti
tacque i suoi modi arroganti
svilì le sue idee svecchiate
flixò il suo know how a puntate
partorì figli a progetto
fu padre di piaceri di letto
per diletto fece camminate
comminate da leggi intimate
perseguitò amanti amate
lasciate per consuetudine d’estate
spese fegati in bevute
con persone sconosciute, involute
si trovò davanti ad uno schermo
e lì pianse il suo eterno.
Feci una carta carbone parecchio tempo fa di Carlo Molinari. Il suo attutito impatto nei confronti del lettore mi ha sempre affascinato, ricorda un fiocco di neve che, imperituro, s’appoggia sulle nostre anime. Ora ve lo ripropongo con lo stesso gentile approccio in questa “Essere Silenzio” per levigare le asperità del risveglio di un lunedì mattina e per rassodare una collaborazione con questo navigato ed affermato poeta dai modi galanti. Buona giornata e statemi in luce. (Filippo Fenara)
Quello che siete in procinto di leggere non è un racconto, non è una poesia, non è un articolo, ma una riflessione concisa sulla storia dell’umanità la cui armonica sequenzialità conduce ad una risposta decisa, inequivocabile e oggettiva. Merce rara di questi tempi. Il misterioso autore che si cela dietro lo pseudonimo di Bretella Seduta è uno scrittore notevole di blogtales, racconti brevi e, come in questo caso, ragionamenti filosofici di una linearità impressionante. Se v’aggrada la perla sottostante, follouatelo sul suo blog lincato in calce e statemi in luce. (Filippo Fenara)
In principio si manifestò il caos
Che generò la tempesta.
Che divise il mondo in due.
L’oscurità si prese la notte.
La luce il giorno.
La penombra rimase a mani vuote.
L’ombra emigrò sulla luna.
Il mare rimase in attesa.
Dalla Terra emerse un seme.
Che mise radici e divenne un albero.
Eterno, questo il suo nome.
Fu il primo.
Creò la natura.
Vide che fu cosa buona e giusta.
Fu allora che osò.
Creò la vita.
Nacque l’uomo.
Ma era imperfetto.
Tutto ciò che toccava moriva.
Prese la natura e la nascose alla vista dell’uomo.
Poi chiamò a sé il cielo e il mare.
L’uomo perì.
Eterno ci riprovò.
Ma chiese aiuto.
Arrivò l’astronave.
Scesero gli dèi.
Donarono semi più resistenti.
Lui diede i semi alla natura.
E vide che funzionò.
Eterno aspettò.
Quando fu pronto ci riprovò.
Nacque l’uomo nuovo.
Ma era sempre imperfetto.
Eterno si arrese.
Si rivolse alle astronavi.
Dal cielo scese la morte.
L’uomo perì.
Eterno fece un patto con gli dèi.
A lui la natura, a loro l’uomo.
Gli dèi crearono l’omo sapiens.
Era ancora imperfetto.
Ma era perfetto per loro.
Fu la svolta.
Gli dèi salirono sul monte più alto.
Lo chiamarono Olimpo.
Rinchiusero l’uomo in un recinto.
La chiamarono civiltà.
Fine.
Oltre. Non so bene esternare cos’è, ma sicuramente è oltre. C’è qualcosa di misteriosamente magnetico che arde oltre le poesie di @phoenisia, ogni sua pubblicazione mi lascia come frastornato, spaesato, attonito: non ho ancora capito se sia la sua femminile sfrontatezza, il suo affrontare qualsiasi contenuto con piglio amazzone, la sua granitica ingegneria dialettica, il suo viaggiare nello spazio temporale che intercorre tra una gomma masticata e la mitologia occulta di Ecate, la sua identità ben delineata ed allo stesso tempo aleatoria, sfuggente. Sta di fatto che ho “battezzato” questo proiettile verbale “Il Mio Quid”, non tanto per la valenza letteraria ma in quanto ritrae quella quantità e/o qualità indefinita della sua persona. Lanciatevi da questo ponte aulico, vi assicuro che non vi farete male. Statemi in luce. (Filippo Fenara)
Mi sono franate addosso
decadi temporali ed un
minuto si è allungato
in un’ora]
D’organza crespa e
incolore è il mio quid
dagli orli malridotti ma
tu dì il mio nome e
non mi vacillerà mai più
il cuore nel porgere
i miei omaggi ad Ecate
nel suo chiostro spettrale]
Come la mia casa
degli specchi-
ingentiliscine gli anditi
ribattezzami come
più ti pare e piace
gemma di Mirto
oppure stella marina
non più schiava di maree
pronunciami nella lingua
dei mortali a te più consona
e non sarò mai più
terrificata dalla vacuità,
che sa solo inaridire
ma adesso che non sei
dove dovresti essere
ad un soffio di caldo fiato
Sul mio collo-
mi rimane comunque
marchiato sulla fronte:
un forse
Ho sempre ripubblicato i racconti radicati negli anni ’80 di Albert, ma uno scrittore in possesso del binomio di genuinità e tecnica come lo è lui, è in grado di emozionare scrivendo poesie, pensieri, aforismi, narrativa ed anche articoli: questo autore è mago nel rievocare il passato, nel coprire dolcemente le spalle della nostalgia – nell’accezione positiva del termine – con manti di parole di una semplicità disarmante, sensazioni che si propagano nel corpo lasciando una sensazione di calma, riflessione e languore. Oltre all’abbraccio della poesia che segue, vi invito a leggere anche l’ultimo racconto eighties di Albert, “Erika La Yuppie”, cliccando QUI. Leggere non ha senso se non ce l’ha chi scrive. Ma non è proprio questo il caso. Statemi in luce. (Filippo Fenara)
Tenue colore di un tramonto,
orizzonte fresco il sole muore
cerco un ricordo dietro dune di sabbia
che celano immagini di amori caldi
baci di salsedine.
Buio freddo nel cuore
vecchie foto di mani intrecciate
seduti su un molo
piedi nudi che accarezzano le onde
in questa spiaggia che ci ha visti assieme
son tornato e sento freddo
Una visione d’agosto
i tuoi capelli tra le mie mani
ed ora freddo e silenzio
di feste finite e tormentoni passati,
senza avere il senso dell’età,
del gioco, del desiderio
del ritorno.
Donna sconvolta, avvolta d’avvenenti
molteplici moltitudini di volti
io scendo il verbo che tu non ascolti
t’asporti nei tuoi pensieri ritorti
torni mascotte degli stolti
macchè stalking, sei tu che ti dilegui
rifugi i tuoi dinieghi e ti colleghi
alle idealizzazioni in cui anneghi,
idilli tra i birilli travolti da uno strike
sogni un “per sempre” e vivi in un “mai”.
Non ti gironzolo attorno
ma ti vengo dentro
senza concepire
il precipizio
del tuo senso.
Che di te non ce n’è,
almeno per adesso.
Lungi da me il voler danneggiare la privacy di Ilaria, ma alcune precisazioni, prima di leggere questo suo componimento dal gusto genuinamente civico, vanno fatte: l’autrice, di origini emiliane, ora vive a Parigi, la stupenda città dalla quale trae l’ambientazione il testo ed Elies è il nome di un ragazzo che ha impressionato – senza che ci fossero coinvolgimenti sentimentali – la pellicola mnemonica di Ilaria, la quale a sua volta l’ha tradotta in evocativi versi sinestetici. I sensi vengono infatti travolti in toto dall’incedere sinusoide della narrazione, è un chiaro, singolare e futuristico esempio di “poesia aumentata”. A breve respirerete “il profumo del vento” di Parigi, allacciate le cinture e statemi in luce. (Filippo Fenara)
Con codeste iperteste
ci conciamo per le feste
a milioni di anni luce
sbircio sotto la tua sottoveste
mentre molleggio per il labirinto
sotto il poliestere ti sento
e ballo krump sul roof
sulle volte stravolte del tempo
facciamo petting uaifai
ci postiamo un botto di smiles
parralleli sovrapposti
io so di te quello che tu di me sai
sotto lo stesso piumino leggero
in due letti non combacianti per un cielo
impugno i tuoi fianchi
inspiro il tuo eros che non mi par vero
sul tuo collo i miei baci inventati
t’immagino mia da tutti i tuoi affusolati lati,
è sempre più intenso, più denso
anche se non ci siamo mai presentati
e prima di dormire
passeggiamo nella galassia
senza proferir parola
di quanto questo ci piaccia.
Ecco come ci si guadagna il rispetto. Come ho scritto qualche giorno fa in un aforisma, “L’importante non è provarci, ma essersi” e Biagina Danieli si è sempre al 200%, quasi a sbeffeggiare tutti coloro che ci provano con tentativi poetici grotteschi camuffati da bellezza ma farciti di inadeguatezza e scarsa coordinazione aulica. “Spuria” è un asso di briscola pigliatutto che lascia gli altri partecipanti del “gioco dei likes” a bocca chiusa con la coda tra le gambe. Ecco come ci si guadagna il rispetto. Statemi in luce. Come Biagina Danieli.
figlia di un proletario.
io ho studiato.
e canto come il grasso d’olio
sulle mani corrose dal ferro,
nelle catene di montaggio.
Parole grezze, le mie,
sintetiche come diamanti falsi
che rovinano la purezza
delle metriche classiche e della Poesia
sono parodia.
Le rivendico e non mendico
effimeri piaceri
di un dire che non m’appartiene.
La vita è sporca e va rimata spuria.
Introduco lo scritto di Stefano Budicin aka @merenernellanotte con il quale ha aderito e contribuito all’iniziativa collettiva Instagram “Limiti Umani” di cui ho già accennato oggi in occasione della ripubblicazione della poesia di PMR (trovate l’articolo QUI). L’eccelsa ed elevata prosa di questo autore cattura l’attenzione irrevocabilmente e conduce fino al termine dello scritto senza mai subire cali tensivi, una concatenazione di parole in cui non è mai presente “l’anello debole”. Buona lettura e statemi in luce.
Adoro le possibilità espressive che conseguono al dialogo che si innesca tra limite e infinito. Goethe precisa che la bellezza sta nella misura. Affascina l’idea che per gustare davvero il cuore di qualcosa sia necessario sorbirlo a piccole dosi, senza strafogarsi. Vero è però che vi sono ambiti nei quali è d’uopo essere più lucidi di Ulisse e superare di slancio le colonne d’ercole della propria Weltanschauung (visione delle cose). Uno scrittore sa che l’immaginazione può tutto e i limiti sono solo formali. Essi consistono nel dare un ritmo un timbro un tono al magma polimorfo della vita, recintandola in formule sintattiche contro le quali essa non potrà che scontrarsi in un denso e reiterato ebb and flow di antipatia. Ma se i limiti non esistessero il magma colerebbe giù dalle pendici del vulcanico fluire cui il reale sa di essere sinonimo, e laverebbe via, a suon di folate ardenti, tutto il circostante. L’Ulisse di Joyce è un’opera straordinaria perché l’apparente incalcolabile disordine della vita quotidiana viene presentato in tutta la sua ricchezza attraverso una struttura rigorosa. Mancasse quella, la vita prevarrebbe. Quando nasce, il bambino è onnipotente. Poi cresce, e si dimentica di esserlo. Ma è solo grazie a chi, crescendo, non si arrese all’evidenza di non poter volare, che oggi possiamo volare, pur se confinati all’interno di precise leggi fisiche il cui pregio maggiore è di averci limitati a tal punto da spronarci a realizzare lo stesso i desideri che tanto ci fa gola soddisfare.
Seguire il profilo Instagram di Francesco Minichini aka @jodelaki è come trovare un’inesauribile vena aurea: tant’è che ho avuto un forte imbarazzo nella scelta della poesia da sottoporre alla lente delle carte carbone, considerato che il valore di esse, a parte un tecnica sopraffina, consiste in una capacità di comunicazione istantanea, immagini come diapositive che scorrono nella mente durante il corso della lettura; per fare una metafora, Francesco Minichini sta alla poesia classica come il free jazz sta allo spartito. In questa “E Se Ci Penso Bene” (titolo scelto da me NDR) si segue il suo pensiero apparentemente pindarico e frammentato per raccontare una storia d’amore sfumata, che diventa congrua e lineare solo al termine della poesia. Un altro eccellente volo per la penna alata di @jodelaki. Statemi in luce. (Filippo Fenara)
Il Petrucciani della QWERTY
non scrive per averti
gli basta saperti
in inauditi
ed inuditi
canoni inversi
capoversi sommersi
da occhi tersi
persi nel languore
di un desolato
albergo ad ore.
Un brevissimo proemio per sottolineare il superlativo contributo di PMR alla lodevole iniziativa collettiva Instagram “Limiti Umani” alla quale hanno partecipato anche @cataldi_luisa @essereneiversi @inosservatapasso @merenernellanotte (del quale ripubblicherò il relativo scritto questa sera alle 21) @pensieripassati @vanskywriter e @beppecampo. Statemi in luce. (Filippo Fenara)
Essere umiliati e dimostrarsi umili è molto differente: la prima condizione è ovviamente estremamente negativa, la seconda è quella in cui mi sono sentito io davanti a questi versi spontanei ed ispirati di Elisa Falciori. Come già scritto più volte, non sono e non anelo ad essere un critico letterario, sono esclusivamente una persona che ha deciso di mettere a nudo la propria sensibilità per assorbire emozioni, come in questo caso, per poi diffonderle il più possibile nell’utopico tentativo di asservirmi ad un futuro di coesione tra gli esseri umani, di sintonia con la natura, di empatia verso il creato. L’unica cosa che posso esprimere su questa immensa poesia è gratitudine verso la sempre gentile autrice e il solo gesto che mi sento di fare è di lasciarvi di seguito un brano jazz che, ad istinto, ho collegato a queste zampillanti parole: prima di leggere vi consiglio di far partire l’audio. Statemi in luce. (Filippo Fenara)
Gennaio mi accompagna
in questa rinascita dall’alto
il vento fra i capelli grigi
ha il brusio dell’acqua.
I morti camminano nel mio sangue
inspessito dalle maledizioni
il passato diluito in parole
è metallo scolpito a fuoco
che incrosta tenaci segreti.
I ricordi si fanno buoni
senza respiri forti.
Tra i sempre verdi, un nido, nascosto
come dentro me l’ansia tenace
che dissimulo agli altri.
Uno scoiattolo fugge veloce al letargo.
La mia l’ombra cade rassicurante inesistente,
confusa tra i sassi.
Bicep sono un duo di produttori e deejays provenienti da Belfast che hanno deciso di unirsi artisticamente nel 2009 in quel di Londra, facendosi conoscere nella scena sotterranea con i loro dj sets ma, soprattutto, con il blog “Feel My Bicep” dal quale tuttora trasmettono e postano articoli sulle “dimenticate” correnti stilistiche musicali dance, Chicago house, Detroit techno e Italo disco. Il loro attesissimo primo album “Bicep” (2017) ha avuto un grande successo nel mondo delle densflo e nelle ciarts di tutta europa, questo “Sundial” è un fantastico EP appena pubblicato che precede di poco l’uscita del loro secondo lavoro (22 Gennaio prossimo venturo) intitolato “Isles”, del quale, viste le promettenti premesse, farò sicuramente un’esaustiva recensione. “Sundial” segna il passaggio dei Bicep da sonorità più house (genere che negli ultimi anni sembra arrivato ad uno stallo saturativo) ad un’elettronica più al passo con i tempi, in alcuni brani addirittura anticipandoli. Vi slaccio un’impronta albicoccata sui timpani e vi aspetto per l’uscita di quello che, secondo me, sarà uno degli album più interessanti del 2021, ovvero “Isles”. Statemi in luce. (Filippo Fenara)
Un buongiorno flambato a tutti…oggi si comincia con l’incandescente tenore poetico della brava autrice LeeLoo che, pur mostrando una volubile (ma sarebbe meglio utilizzare il termine “evolvente”) versatilità metrica e stilistica, sfoggia la sua peculiarità caratterizzante nel saper cogliere i cuori dei lettori senza strapparne lo stelo, ma disinterrandone dolcemente le radici e trapiantandole nel terreno fertile del suo mareggiante incedere lirico. Ho letto e riletto questa toccante traccia priva di inutili orpelli e anestesie date da vocaboli troppo complessi, poi ho deciso di lasciare a voi l’interpretazione dei versi liquidi di LeeLoo che si conquisteranno, onda dopo onda, l’arenile delle vostre palpebre, accompagnandovi lungo una struggente commozione. (Filippo Fenara)
Mi promisi
di non scriverti.
Sai,
oggi
è eco
del passato,
flebile respiro
del domani.
Non sorrido
per non
somigliarti,
eppure
inciampo
nei buffi
ricordi.
Mani
senza una
stretta
e profumo
assente.
Chino
il capo,
cade
la goccia
di una
nota
mai
suonata.
E così,
sorrido
per
lenire
le ferite
mie,
per
scandirle
sulle armonie.
Insensato
è credere,
come possibile
sia,
che la tua
presenza
scivolò
via.
Lo
chiedo al
mio calice,
e lui
mi riflette
solo
la tua
immagine.
Pronti…partenza…viaaaa!!! Ed eccomi, dopo il varo di ieri della fiammante rubrica “Foto Sintesi”, con un’altra inaugurazione, questa volta di uno spazio chiamato “L’allibratore” dove mi curerò di una “recensione emotiva” di libri di poesia che mi hanno colpito particolarmente, con la riproduzione di alcuni significativi versi e un amichevole, generico commento. Prima di cominciare tengo a precisare che – per ora – queste recensioni (e non critiche letterarie) sono gratuite e selezionate, con il permesso dell’autore/autrice, secondo i miei gusti di lettore e ricercatore d’anime. I libri che non mi interessano, semplicemente, non li recensisco, nemmeno per un milione di euro. Ma forse per un milione un pensierino…
Parto da questo libro dell’autrice abruzzese che conosco da tempo virtualmente per gentilezza e disponibilità e della quale ho stilato numerose carte carbone in passato. Questa rappresenta la sua prima raccolta poetica, edita nel Marzo del 2019 e trovo modo di parlarvene proprio ora che è appena uscita la sua seconda fatica “È Tempo Di Disobbedire”, della quale ne tratterò, sempre in questa rubrica, a breve. Dopo un’attenta lettura (dite quel che volete ma io, nei lunghi viaggi in autobus trovo una concentrazione superiore ai miei standards abituali…) di “Germoglia L’anima Deserta” ho concretato almeno tre caratteri che rendono questo libro autentico: la vita di un piccolo paese dell’Italia centro meridionale (dove l’autrice è nata), l’impegno sociale incombente e la lotta a denti serrati per la salvaguardia di valori morali, sentimenti profondi inequivocaboli e anime intonse, il tutto accomunato da un amore intenso, ingenuo, irrevocabile per la vita.
Ecco l’amore. L’amore che nella scrittura di Manuela Di Dalmazi spesso sfiora l’eros ma si radica profondamente nel ferace animo della scrittrice determinandone a monte tutti gli impulsi creativi, è proprio l’amore che genera il leit motiv di questa silloge, l’amore di madre, amante, compagna, amica e l’amore verso sè stessa dal quale tutto prescinde.
Amore quindi nella sua forma più rilucente, ma anche nella sofferenza che implica, nella delusione dell’abbandono, nel crepitio interiore della mancanza, nel rimpianto di anni vissuti nella tossicità di rapporti impossibili.
Prima accennavo all’impegno sociale della poetessa, significativa è l’elegia “Gratta e Vinci” nella quale offre una dolente ed attenta disamina dei malcapitati fruitori del “azzardo di stato” che si rovinano nell’utopica speranza di “svoltare” la propria esistenza, quindi riepilogando, nessun sentimento ipocrita da mettere sotto l’albero di Natale o introspezioni ripetitivamente astruse, ma metallici ganci lirici che si conficcano nella triste realtà della socialità popolare.
La natura come insegnamento metaforico, l’acqua della sorgente, “le luci del giorno svestite dall’alba”, le onde, l’orizzonte i “prati inginocchiati ai piedi della montagna”, sono tutti valori bucolici che Manuela di Dalmazi ha fatto suoi, riversandoli in lemmi tracimanti luce e felicità.
Il libro si conclude con 33 haiku che – attenzione – non sono difficili da comporre, ma è assolutamente complicato stilarne di belli e significativi. Manuela Di Dalmazi eccelle in questa tecnica poetica dalle origini nipponiche riuscendo a comprimere simbolismi enormi in pochissime stringate parole.
Trarre delle conclusioni da “Germoglia L’anima Deserta” è un gesto azzardato, l’autrice, già matura tecnicamente e moralmente all’epoca della pubblicazione del libro, è ulteriormente migliorata, ma nel frattempo la pandemia ha completamente rimescolato le carte in tavola dell’umanità. Credo però che, valutando il prezzo di copertina e la qualità aulica ed emotiva espressa, sia quasi un dovere acquistare questa silloge di debutto di Manuela Di Dalmazi, semmai accoppiata all’ultima sua recente uscita “È Tempo Di Disobbedire”. Statemi in luce. (Filippo Fenara)
Enza Graziano ha qualcosa di magicamente empatico nel suo scrivere, se non altro, ogni volta che m’imbatto in uno dei suoi scorrevoli racconti, trovo riferimenti coincidenti con la mia vita attuale, come se subconsciamente (…e qui entriamo nella sua sfera professionale) conoscesse spezzoni dei miei pensieri (molto spesso struggenti ma mai negativi) e me ne parlasse apertamente come con un confidente. Più che una diagnosi di persecutorietà la definirei un’affinità quantica, una connessione spirituale.
Mia madre era così, da bambina fino all’ultimo dei suoi giorni si è privata di tutto, ha sacrificato la sua vita per la famiglia, non ha mai avanzato pretese ma, l’unico suo desiderio, era che non la sfiorasse mai l’eventualità di rimanere senza “Qualcosa Da Leggere”. È con questo stupendo racconto breve che Enza Graziano ha fatto riemergere in mezzo al mio petto questo languido ricordo, inoltre ha (re)instillato in me la lettura come valore umano molto più elevato di una sana abitudine. Cosa che mi auguro succeda anche a voi. (Filippo Fenara)
Vera guarda fuori dalla finestra della sua cameretta pensando che da domani tutto sarà diverso, anche il suo sguardo sul panorama montuoso che da sedici anni vede tutte le mattine. Sorseggia il latte preparato dalla sua mamma, mentre del pane caldo la aspetta sul tavolo, in cucina. Chissà se stamattina me ne hanno lasciato qualche briciola, pensa sorridendo tra sé e sé. È la seconda di otto figli e non è mai facile farsi spazio in famiglie così numerose, anche se il papà lavora sodo per dare a tutti loro una vita dignitosa. L’Italia è in crescita in questi anni, eppure Vera e i suoi fratelli camminano con le scarpe rotte e le maglie rattoppate. Figuriamoci se Vera può permettersi di andare a scuola o, peggio ancora, di comprare qualcosa da leggere. Eppure lo desidera così ardentemente! Vorrebbe soltanto immergersi in righe e righe da divorare, in storie da ricordare, in luoghi da immaginare e in folle di personaggi da conoscere.
È il 1964. Domani Vera si sposa. Suo marito è più grande di lei di dieci anni. Si sono conosciuti un anno fa. Lui passava ogni mattina sotto il suo balcone, per andare al lavoro. Un duro lavoro, quello del carpentiere. Ma la vista sinuosa di Vera gli allietava ogni fatica. Lei, dal canto suo, ogni mattina trovava una scusa per affacciarsi alle 6.30 in punto e regalare il suo sorriso migliore a quell’uomo scurito dal sole, con le sopracciglia nascoste dai folti capelli neri. E poi era seguito un saluto timido con la mano; e poi era seguito un bacio soffiato nel vento fresco dell’alba; e poi era seguito un incontro fortuito in strada, coronato da occhiate passionali; e infine era seguito un incontro con i suoi genitori in cui Raffaele, con il vestito della domenica, aveva chiesto la mano di Vera al suo papà.
Forse, una volta sposati, Raffaele mi comprerà qualcosa da leggere. Questo è il bizzarro pensiero che le viene in mente, oggi, il giorno prima del suo matrimonio. Non pensa a quanto sia giovane, non ai figli che verranno, non al cambiamento che la aspetta: pensa solo a qualcosa da leggere.
È il 1970. Vera chiede degli spiccioli a Raffaele per comprare un libro che ha visto in edicola in edizione economica. Raffaele le tira un ceffone e la mano possente si stampa sulla pelle delicata del viso. Non ti permettere mai più di farmi una richiesta del genere. Cosa credi, di essere una donna emancipata? Forse in un’altra vita. Ora devi fare solo la moglie e la madre e, sbattendo la porta, se ne va a lavorare.
È il 1976. Vera ha messo da parte, 10 lire alla volta, il resto della spesa quotidiana, per comprare una rivista che ha visto in edicola, mentre passava a testa bassa. Stringe quella mattonella di carta al petto e poi la schiaccia sul naso per sentirne il profumo. Corre a casa per leggere, rileggere e ancora leggere, nel silenzio della casa vuota. Ma Raffaele rincasa prima del previsto e la sorprende alle spalle, mentre lei è completamente assorta e non si accorge della sua presenza. Raffaele le tira i capelli, tanto che una ciocca di quella capigliatura folta gli resta nella mano. Poi le strappa la rivista dalle mani e la getta nelle fiamme vivaci del fuoco scoppiettante. Vera non dice nulla, ma nell’aria ferma si sente il sibilo del suo singhiozzo strozzato.
È il 1990. Vera manda uno dei suoi nipoti in edicola, a prendere la rivista che legge sempre. Non va da sé perché l’edicolante una volta ha fatto la spia. Una moneta di mancia al nipote e poi può drogarsi di lettura e vedere cosa succede al mondo, almeno così. Lei non esce mai, al mare ci sarà andata tre volte in tutto nella sua vita e di certo non con Raffaele; il massimo del suo svago è andare al minimarket all’angolo a comprare il latte e il pane. Ma Vera ha imparato a nascondere le riviste in un cassetto della cucina, dove sa che Raffaele non mette mai le mani. Continuerà a leggere, oltre ogni ostacolo. Continuerà a volare con la fantasia: è quanto le basta.
Blog: Enza Graziano – https://enzagraziano.wordpress.com/
Profilo Instagram: @enzagraz
Qui è sempre peggio. O meglio. Cioè, insomma. Vi spiego: tra i divieti, il blog da seguire e il freddo che fa fuori, passo giornate intere nella mia mansarda tra laptop, cellulare e PC e mi concedo, tra una piadina alla maionese e una lasagna fasulla da scaldare al microonde, pochi brevi momenti di ballo sulle mie musiche preferite, immaginate un coacervo anatomico rivestito in pile che shakera inadeguatamente e con dubbia coordinazione le proprie carni lasse (anche lassative se mi poteste vedere) proiettandosi in disarticolati movimenti che ricordano la breakdance esibita dentro il baule di una 500. Insomma, dopo anni che avevo abbandonato le densflo, ho potuto ritrovare un’intimissima espressione fisica del mio amore per la drum’n’bass, l’hip hop, la trance, il downbeat e perchè no, ogni tanto, con il punk hardcore e il thrash metal, mi lancio dal letto in uno stage diving dove sfortunatamente non ci sono le mani dei miei fans ad attutire la caduta. Disagi da lockdown. Uno degli album che mi sono più spupazzato in assoluto nell’ultimo mese è “My Own Private Island” dei Mystic State, un duo di produttori di drum’n’bass del sud ovest dell’Inghilterra, che hanno dato alla luce il loro primo album l’anno passato. Atmosfere ambient, suono raffinato, virtuosismi elettronici sui beats e qualche sporadica voce per rompere un’altrimenti difficile e notturno pathos. Ho già tra le dita la puntina che va a calare su “Mirror’s Edge”, una vampa di fuoco sui vostri timpani…
Non so a voi, ma a me questo suono inocula relax e calma, a dispetto del ritmo arrembante e dei suoni velatamente techno: l’ipnosi dell’atmosfera spaziale che si respira per tutto il lavoro non risulta mai essere aggressiva, piuttosto è propedeutica alla creatività artistica e alla lettura (se ascoltata ad un volume “vicino friendly”). Un altra traccia emblematica poi si torna in pista a sudare i wurstel crudi che ho appena mangiato: vi propongo la bellissima “Audition” un vero fertilizzante digitale per la mente.
Questi Signori hanno confezionato un grande classico della d’n’b senza premere sull’acceleratore ma scegliendo uno stile espressivo elegante e di classe. Vi consiglio di seguire i links che vi lascio e, allo stesso tempo, vi dissuado dal lanciarvi dal letto al pavimento per non correre il rischio di diventare come me… (Filippo Fenara)
Uhm…
SUCK TOTUM…
“Il buon ignorante
è colui che non sa
e vorrebbe sapere…
Il cattivo ignorante è
colui che non sa,
e non ne vuol sapere
di sapere…
L’ignorante pericoloso
è colui che sa quel poco
che gli basta per pensare
di sapere tutto…”
La sensibile e divinatoria anima artistica di Marianna Bindi, dopo la nostra sperimentale collaborazione improvvisata in chat “Kryptonite“, ci racconta dell’indissolubile legame tra gli esseri umani e madre natura, concatenazione liberatoria dimenticata ed avvilita dal progresso che ha avuto lo scevro potere di recidere i recettori ancestrali presenti in ognuno di noi, proiettandoci in una grottesca emancipazione di massa più simile ad una traballante torre di Babele che al dolce arrendersi alle regole del creato. Con la sua falcata metrica diradata ma densa di simbolicità interiori, Marianna Bindi si sacrifica a tramite tra la trasfigurazione dell’uomo moderno e il nutrimento delle sue stesse radici, regalandoci attimi di connessione empatica con l’universo sancito dalle sue parole. (Filippo Fenara)
Spiega scientificamente
ogni piega, anche l’emozione
della pelle spiega.
La bellezza dopo il pianto
del suo viso grigio contratto
che riprende forma e colore.
Era ombra riflessa
sul muro di cinta,
passo torbido
di ricognizione.
Era solitudine guerriera
che non vuol semine di dolore
ma soltanto liberarsi di sé.
Cielo nero strappato
da un fiato di drago
resto sul vago
mentre come l’ago nel lago,
m’inoculo,
m’inietto con sentore presago
di mani tese sudaticce
prese mollicce
metodiche spicce,
mi strafogo di logos
se non mi sfogo affogo
e mi slogo nella colla
con la collaborazione
della folla
che controlla
la mia cronologia,
l’abbazia crolla
e sotto le macerie
la squillante aerofagia
emessa con ignominia
da ghigne poco serie
spezzo il pane
e ne riservo miserie
per gl’infidi discepoli,
amici con camici
che prescrivono
vandalici farmaci
persone divise
da divise invise
visi sfocati
dal tutto e subito,
dubito ergo sum
derubrico e da me mutilo
destabilizzante social scum.
Eccoci al debutto della nuova rubrica di Lemiecosepuntonet dedicata alla fotografia e, se ne capiterà l’occasione, alla diffusione di immagini di opere d’arte moderna e graffiti, garantendone la paternità ai relativi autori che avranno anche il piacere di raccontarsi e palesare la propria personale creatività al pubblico di questo blog e dei social networks ad esso collegati. Ho deciso che il mio ruolo, considerata la mia mancanza di competenze in ambito di critica letteraria, fotografica e artistica in generale, sarà quello di “ripetitore emotivo” nella specifica urgenza di diffondere il più possibile ciò che la mia – nel bene o nel male – anima extrasensibile ritiene nutrimento interiore, tengo specificare inoltre che questi articoli (per ora, poi chissà…) non sono a pagamento e derivano esclusivamente dai miei gusti personali come fruitore di sensazioni artistiche e umane.
Fatte queste necessarie premesse, con un filo di emozione, mi pregio di accogliere alcuni scatti e parole di La Fleur aka @la_fleur_66, fotografa conosciuta su Instagram che ha già prestato una delle sue opere per la mia cosa “Mani“, convincendomi con la sua passione a varare questa rubrica. Augurando a tutti un buon viaggio ad occhi spalancati, lascio il link di una canzone che amplificherà ulteriormente la percezione sensoriale di quest’artista notevole. (Filippo Fenara)
Unusual Cosmic Process – “God’s Language“
Il nome La Fleur si ispira all’opera di Baudelaire I fiori del male (Les Fleurs du mal), “poeta maledetto” francese che si avvalse della poesia per “estrarre la bellezza dal male”; partendo da questo spunto e attraverso la fotografia, esprimo emozioni e sentimenti ma soprattutto stati d’animo, pensieri, riflessioni, angosce, incubi, sogni, amore, passioni, cose curiose e divertenti, cercando di vedere sempre il lato positivo delle cose.
Dall’analogico al digitale, dalle pellicole negative alle diapositive fino ad oggi.Ho iniziato a fotografare all’età di 12 anni “rubando”, quando possibile, la macchina fotografica dei miei genitori.A 14 anni ho avuto la mia prima fotocamera, una Yashica FX-3 che conservo ancora, con cui ho cominciato a cimentarmi un po’ più attivamente.In seguito un’altra analogica ha fatto il suo ingresso a casa mia, una Nikon…prima di passare al digitale con una FujiFilm.Nonostante sembrasse magico per l’epoca (20 anni fa) poter trasferire le immagini direttamente sul computer, sono sempre rimasta legata nostalgicamente alle pellicole, ricordo gli ISO e i DIN, e in seguito gli ASA, per misurare la sensibilità della pellicola, l’attesa dello sviluppo del negativo, la scelta dei fotogrammi da stampare su carta.
Una decina di anni fa, vista la mia crescente passione, ho fatto il grande salto acquistando una fotocamera un po’ più impegnativa, quella che utilizzo attualmente, una Canon 70D, con cui scatto in raw.Da circa cinque anni utilizzo prevalentemente il cellulare, le foto sul mio profilo sono realizzate quasi totalmente col telefono, che risulta molto pratico, versatile e rapido per gli scatti “coup de foudre” permettendomi la pubblicazione sui social praticamente live.
I soggetti. Ogni cosa è per me uno spunto per fotografare, un dettaglio, un particolare, riflessi, ombre, architettura, viaggi ma anche vita quotidiana, soprattutto in questo periodo di restrizioni negli spostamenti. Adoro anche la macrofotografia.
Mi piace giocare con la fotografia, a volte capita di assumere posizioni scomode, quasi sdraiata a terra ad esempio, pur di riprendere ciò che ha colpito la mia attenzione o semplicemente per avere un punto di vista differente.
Prospettive. Punti di vista. Obiettivi.
Le analogie che osservo tra la mia vita e il mondo della ripresa fotografica sono molte. A volte basta spostarsi leggermente da un lato o dall’altro, più in basso o più in alto, o ancora, utilizzare una lente diversa per cambiare ottica e vedere le cose in modo del tutto differente. E restare sorpresi del risultato.
Si conclude qui la prima – gloriosa – puntata di Foto Sintesi, mi scuso anticipatamente con La Fleur ed i lettori se potessero esserci errori tecnici nell’articolo ma ormai il primo passo è stato fatto, si può solo migliorare, un saluto a tutti e a presto!