Bicep sono un duo di produttori e deejays provenienti da Belfast che hanno deciso di unirsi artisticamente nel 2009 in quel di Londra, facendosi conoscere nella scena sotterranea con i loro dj sets ma, soprattutto, con il blog “Feel My Bicep” dal quale tuttora trasmettono e postano articoli sulle “dimenticate” correnti stilistiche musicali dance, Chicago house, Detroit techno e Italo disco. Il loro attesissimo primo album “Bicep” (2017) ha avuto un grande successo nel mondo delle densflo e nelle ciarts di tutta europa, questo “Sundial” è un fantastico EP appena pubblicato che precede di poco l’uscita del loro secondo lavoro (22 Gennaio prossimo venturo) intitolato “Isles”, del quale, viste le promettenti premesse, farò sicuramente un’esaustiva recensione. “Sundial” segna il passaggio dei Bicep da sonorità più house (genere che negli ultimi anni sembra arrivato ad uno stallo saturativo) ad un’elettronica più al passo con i tempi, in alcuni brani addirittura anticipandoli. Vi slaccio un’impronta albicoccata sui timpani e vi aspetto per l’uscita di quello che, secondo me, sarà uno degli album più interessanti del 2021, ovvero “Isles”. Statemi in luce. (Filippo Fenara)
Qui è sempre peggio. O meglio. Cioè, insomma. Vi spiego: tra i divieti, il blog da seguire e il freddo che fa fuori, passo giornate intere nella mia mansarda tra laptop, cellulare e PC e mi concedo, tra una piadina alla maionese e una lasagna fasulla da scaldare al microonde, pochi brevi momenti di ballo sulle mie musiche preferite, immaginate un coacervo anatomico rivestito in pile che shakera inadeguatamente e con dubbia coordinazione le proprie carni lasse (anche lassative se mi poteste vedere) proiettandosi in disarticolati movimenti che ricordano la breakdance esibita dentro il baule di una 500. Insomma, dopo anni che avevo abbandonato le densflo, ho potuto ritrovare un’intimissima espressione fisica del mio amore per la drum’n’bass, l’hip hop, la trance, il downbeat e perchè no, ogni tanto, con il punk hardcore e il thrash metal, mi lancio dal letto in uno stage diving dove sfortunatamente non ci sono le mani dei miei fans ad attutire la caduta. Disagi da lockdown. Uno degli album che mi sono più spupazzato in assoluto nell’ultimo mese è “My Own Private Island” dei Mystic State, un duo di produttori di drum’n’bass del sud ovest dell’Inghilterra, che hanno dato alla luce il loro primo album l’anno passato. Atmosfere ambient, suono raffinato, virtuosismi elettronici sui beats e qualche sporadica voce per rompere un’altrimenti difficile e notturno pathos. Ho già tra le dita la puntina che va a calare su “Mirror’s Edge”, una vampa di fuoco sui vostri timpani…
Non so a voi, ma a me questo suono inocula relax e calma, a dispetto del ritmo arrembante e dei suoni velatamente techno: l’ipnosi dell’atmosfera spaziale che si respira per tutto il lavoro non risulta mai essere aggressiva, piuttosto è propedeutica alla creatività artistica e alla lettura (se ascoltata ad un volume “vicino friendly”). Un altra traccia emblematica poi si torna in pista a sudare i wurstel crudi che ho appena mangiato: vi propongo la bellissima “Audition” un vero fertilizzante digitale per la mente.
Questi Signori hanno confezionato un grande classico della d’n’b senza premere sull’acceleratore ma scegliendo uno stile espressivo elegante e di classe. Vi consiglio di seguire i links che vi lascio e, allo stesso tempo, vi dissuado dal lanciarvi dal letto al pavimento per non correre il rischio di diventare come me… (Filippo Fenara)
Il tutto è nato da un virtual diggin’ che mi ha portato all’etichetta discografica di musica elettronica “AstroPilot Music”, che annovera nel suo archivio talenti poco conosciuti dell’espressione sonora digitale ma dal grande valore stilistico e creativo. Questo fantatalentuoso produttore che di nome fa Runar Kristinsson proviene da Nikolaev in Ucraina, cavalca il sound etereo e ipnotico binario che va dalla downbeat alla dubstep fino alla trance, tutto di ottima fattura e dal potere evocativo non indifferente. Nel contesto “cosmico” che il musicista vuole ricreare sotto l’egida dello “psychill” in realtà si cela un album senza cali tensivi, ben prodotto e dalle proprietà ipnotiche eccelse. Cominciamo a calarci nell’interspazio dei suoni di Unusual Cosmic Process con una traccia di dubstep o techno trip hop che dir si voglia che vi farà alzare le natiche dal divano…
Ottimo prodotto direi, tagliato pochissimo e con un principio attivo del 90%. Ora, per il secondo ed ultimo ascolto, spostiamoci sulla Goa trance che il musicista ucraino interpreta con maestosa padronanza, ballate pure nella vostra camera, anche questo è un segno d’insurrezione. Che “Rising Sun, Setting Moon” abbia cura di voi…
Mi perdonino tutti i musicisti “tradizionali” ma questo è un disco epico che si ascolta e riascolta con piacere e ferrea volontà. Indicato anche per chi cerca uno status olistico meditativo per creare opere artistiche, se non altro con me ha funzionato… (FIlippo Fenara)
Rabea Massaad è un chitarrista (in realtà polistrumentista) 32enne inglese famoso soprattutto per il suo canale youtube che conta quasi 300.000 iscritti, per la sua collaborazione con le bands FrogLeape Toska e, nel focus di questo articolo, per i suoi lavori da solista di cui sto per presentarvi l’ultimo nato, l’eccellente “Grinding Gears, Vol. 3” nel quale il musicista esibisce i suoi skills alla batteria, al basso e, grandiosamente, alla chitarra elettrica. Partendo dal presupposto che si tratta di un album completamente strumentale che spazia dal rock al thrash metal, con uno strabiliante episodio funky, il desiderio di farvene partecipi nasce da un ascolto gradevole e “tosto” che può accompagnarsi a qualsiasi momento della giornata, convogliando piombo fuso e atmosfere bollenti nelle vostre edfons con un livello tecnico di indubbia qualità. L’esca che mi ha fatto piacevolmente “abboccare” alla creatività musicale di Rabea Massaad è stata la traccia funky “Don’t Get Me Wong”, una chicca per il vostro apparato uditivo, in onda ora sulle frequenze degli audio bagliori di Lemiecosepuntonet!
Dopo il molleggiante incedere di questo trascinante funky flavour – del quale potrete trovare anche una sorta di “making of” nel succitato canale YouTube del chitarrista anglosassone (di cui vi fornirò tutti i links utili a fine articolo), facciamo un passo indietro verso il brano che apre “Grinding Gears, Vol. 3”, un jab thrash metal strumentale potente e tecnico che ricorda le mie preferenze musicali adolescenziali trasferendole con indomabile energia nel presente senza mostrare segni di invecchiamento, se non quelli che, per esempio, fanno di un buon vino una bottiglia imperdibile. Alzate il volume a cento e pushate il triangolino, sta per travolgervi l’onda anomala di “Aggy Bas”…
In conclusione non voglio dimenticare l’eccelsa qualità della registrazione che risuona potente e limpida (soprattutto in impianti decenti…) e, sebbene gran parte della produzione di Rabea Massaad sia rivolta a musicisti e chitarristi che vogliono imparare trucchi e ascoltare i suoi consigli tecnici, io ho trovato questo album – ma anche i due volumi precedenti – una bella esplosione cosmogonica, che aiuta ad affrontare il periodo di cambiamento con piglio guerriero. Da ascoltare senza pregiudizi. (Filippo Fenara)
Kennyflowers è un giovane cantante di new soul che ho conosciuto tramite Instagram. Il suo lavoro del 2019, “Joat”, è una consequenziale (soprattutto se lo mettete in replay) vibrazione colorata e positiva per tutti i 24 minuti di durata, surfati dalla voce vellutata e armoniosa del performer statunitense che si adagia sulle onde spumeggianti di grooves imbellettati da lucidi pianoforti e synths, comunque tendenti alla semplicità dello swingato ed allegro risultato finale. Vi metto in onda un’impronta del suo disco dal titolo “Hard To Get” (in collaborazione con l’altrettanto brava vocalist Amare Symonè) e vi lascio i links a mia disposizione per entrare in contatto con questa solare realtà che funziona meglio – e con meno controindicazioni – di un antidepressivo. Statemi in luce!!! (Filippo Fenara)
Eh, lo so che a volte i miei gusti musicali sono un po’ aggressivi e dal retaggio adolescenziale, purtroppo o perfortuna sono questo, non mi pagano per recensire i lavori dei musicisti ma, in compenso, ho la libertà di scrivere e diffondere quello che più mi colpisce e che ritengo interessante, senza pormi paletti e confini entro i quali reprimere i miei gusti. Quando ho ascoltato per la prima volta “Ished Tree” del pianista Jamael Dean mi è subito sovvenuta la linea poetica dell’amica autrice Nadia Alberici, classica ed elegante, mai scontata, dolce e introspettiva oppure imbevuta di laconica malinconia, caleidoscopica, esilarante. Ed è a lei che, in segno di pace acustica, dedico questa breve recensione di un disco che amo profondamente. Essendo un giovane (21 anni) – immenso – talento del jazz made in L.A., ovviamente wikipedia non lo contempla neppure, ci dovremo accontentare di qualche mia sensazione a caldo e dell’ascolto di “Ished Tree”, album di piano solo dove il musicista sembra conversare con l’universo, componendo frasi che si leggono sinesteticamente come i versi di una poesia. Ho i brividi nel pensare a quello che sto per scrivere ma Jamael Dean mi ricorda tanto Herbie Hancock che, prima di ascoltare “Ished Tree”, consideravo un punto inarrivabile dell’espressione musicale. Preparatevi, non è musica easy listening, ma un viaggio nell’arte sonora, cominciamo con la moderatamente luminosa traccia d’apertura “When There Is No Sun”, rilassatevi e cliccate play…
Credo che questo album vada ascoltato nella sua interezza, comunque vi propongo di seguito un brano sfumato con alcune contaminazioni di musica contemporanea, io ne adoro il potere narrativo, spero che per voi sia la stessa cosa. Il titolo è “Ballad For Samuel”.
Occhei, anche questa volta una cosina un po’ fuori dal mainstream, sono altresì convinto che piacerà molto a chi nutre una sensibilità artistica spiccata, a chi ama creare, a chi scrive, a chi sa leggere e mi auguro anche sarà di gradimento a…Nadia Alberici. (Filippo Fenara)
Non stiamo a fare tante storie che non ho tempo: avete presente la sensazione di quando vi consegnano la macchina nuova? Ecco, la stessa cosa è l’approccio uditivo con questo bouquet sonoro dei Sylvan Esso. Fine recensione. Scherzo. Sylvan Esso è un duo di electro pop (non in questo EP che vi presento, quasi completamente acustico) del North Carolina, formato dalla cantante Amelia Meath e dal musicista Nick Sanborn, freschi di matrimonio (2016). Di questi tempi dall’atmosfera gotica, ascoltare quest’inebriante, floreale e pimpante “With Love” è un paradosso, ma io ne ho goduto per contrasto, risollevando il mio umore e scorgendo un raggio di sole nel cinereo orizzonte. Spero sia così anche per voi, nel frattempo vi dò uno squisito assaggio con la tronchese “Rooftop Dancing” che libererà i vostri chakra infeltriti…
Tutto il lavoro è luminoso, endorfinico, sorridente, vi lascio i links con la raccomandazione di seguirli e scoprire il mondo lepidottero dei Sylvan Esso.
Un certo tipo di pop impacchettato ad uso e consumo del gregge non è proprio il mio genere e, se faccio un’eccezione per quest’album, è perchè ritengo antiumano non condividere con gli aficionados di questo blog una delle migliori voci che abbia avuto la fortuna di ascoltare negli ultimi anni. Poi, il fatto appurato che “Pang” sia un disco mirato al’easy listening con liriche molto di superficie o in linea con quelli che sono i focus topics internazionali farà storcere il naso ai veri ascoltatori ed appassionati di musica ma, nel contesto, risulta essere un buon prodotto con tutti i sacri crismi per raggiungere un certo successo di classifica. Caroline Polachek, nativa di New York poi trasferitasi in giovane età con la famiglia in Giappone, è cantautrice e, dopo un’esperienza con il gruppo dei Chairlift, allo sciogliersi della band si è dedicata alla propria carriera solista arrivando, nel 2019, all’album “Pang” del quale vi metto subito in onda la mia canzone preferita, “Insomnia”, dalla quale potrete evincere le doti canore incredibili della cantante statunitense.
Ovvio che il riferimento ad Enya Watermark sia evidente, ma il paragone non toglie assolutamente smalto a questa eterea e rilassante traccia, anzi, a mio parere è una nota di merito. Pur rimanendo in uno stato tensivo lasso, ci sono episodi più movimentati come “Hey Big Eyes”, molto dolce e con echi persistenti di world music e la meravigliosa voce di Caroline a risaltare sul piedistallo sonoro.
Forse sono stato troppo severo a inizio articolo, riascoltando più volte il disco – ovviamente non si ha a che fare con del thrash metal – ma con un genere particolare, quasi ambient, assolutamente consigliato (mi sento un dottore che stila la ricetta di un farmaco) nei momenti in cui si vuole ritrovare pace, sia interiore che esteriore. Vi lascio la solita lista di links dove potrete comprare o ascoltare in streaming l’album, oppure seguire Caroline Polachek sui social. Buon ascolto.
I Gabriels sono una meravigliosa scoperta che ho fatto rimescolando nel genere “pop” di Bancamp, anche se di pop hanno veramente poco. La band è composta dall’incredibilmente versatile voce di Jacob Lusk e dalla coppia di produttori Ari Balouzian e Ryan Hope: questo loro singolo/EP è molto gospel, funky, r’n’b, blues ed è una delle migliori cose d’espressione black che abbia ascoltato negli ultimi mesi. Il lavoro comincia con la fantasmagorica “The Blind” con le sue ovattate batterie ed i distanti battiti di mani che creano un’atmosfera intima, quasi da “cantina”, impossibile che non la condivida con voi, scalderà i freddi muri delle vostre case durante questo secondo, claustrofobico, lockdown; da notare anche la splendida fotografia del video, che sottolinea come questa band tenga molto alla rappresentazione cinematografica delle proprie inenarrabili canzoni.
Che ne dite di questa voce e di queste atmosfere da rivolta? Non avete visto ancora nulla. La seconda traccia dell’EP è quella che dà il titolo all’intero lavoro, “Love & Hate In a Different Time” un brano souldance gospel che avrebbe fatto storia negli anni ’70, ora la lascia fare al film breve girato per questa song, dove si succedono le immagini delle varie epoche del ballo, dalla “ghost dance” dei Sioux ripresa da Edison ad oggi, ma il finale è una vera grandeur da brividi: come in una recente manifestazione dei Black Lives Matter, il fantastico (quest’articolo sarà un susseguirsi di esaltazioni della sua figura) Jacob Lusk imbraccia un megafono e, in mezzo ad una piccola folla assiepata, comincia a cantare gospel acappella, il che produce ini me un pensiero: in Italia, in questo periodo di dittatura sanitaria, che fine hanno fatto i rappers sboroni, i cantanti internazionali, i poeti di strada, i giornalisti d’assalto e gli indefessi nemici delle mafie? Branco di pusillanimi, non ho altro da rispondere. Meglio che ci guardiamo sto video ed impariamo che la realtà è sotto i nostri occhi ma preferiamo cucinare pizze, scrivere di farfalle invisibili, parlare di calcio e comperare siringhe super performanti al doppio del prezzo con i soldi pubblici.
Poi, come se non bastasse l’emozione, arrivano languidi, come una ballata da crooner anni ’50, i primi secondi di “Professional” che lasciano, dopo un breve break, il posto a toni più blues e gospel, roba da far accapponare la pelle. Altro slow dai profumi di tempi andati è “In Loving Memory”, pianoforte e voci si fondono in un amalgama sonoro dal refrain in crescendo sostenuto dal gorgheggio lirico di una voce femminile. Siamo – purtroppo – arrivati all’ultimo atto: “Loyalty”. Un poderoso inno blues che vede Jacob in duetto con un’altrettanto suadente e mi gioco un “eccitante” voce femminile, la naturale conclusione di un EP e per quest’anno, della rubrica Audio Bagliori. (Filippo Fenara)
Crypticz è lo pseudonimo del produttore inglese Jordan Parsons, un produttore di musica elettronica che, malgrado la giovane età, vanta già una vasta esperienza nel mondo del reggae dub, la post jungle, l’ambient e la tecno. Dopo una serie di E.P. di ottima fattura, il musicista è arrivato a questo album che mi ha sbigottito per la cura dei dettagli, l’equilibrata miscellanea di generi e la pulizia del suono che rimbomba fino ai garages già a volume di musica classica. 3 razzi in plancia per oggi (di cui l’ultimo è una sorpresa), ma partiamo con la strepitosa “variazione” di “Lakutala”, un dub boom bap ambient dalle sordide sonorità civiche.
Un brano che mi è piaciuto molto è anche “Nightshifter’s Groove”, nel quale le percussioni supersoniche creano un clima tra il poliziesco, la drum’n’bass e il dub. G.B.B., ovvero, Gran Bel Beat.
La traccia che segue, intitolata “The Unknown Reimagine” è invece tratta dal suo precedente E.P. “Eras” che raccoglie materiale inedito dal 2015 al 2019 di Crypticz, in questa staffilata si fondono drum’n’bass e techno in una potenza lisergica non immaginabile.
Oltre a lasciarvi tutti i links in mio possesso su Crypticz, ne suggerisco l’ascolto agli amanti della buona musica elettronica con influenze ambient e dub.
Quando Dezron Douglas (contrabbassista) e Brandee Younger (arpista) si sono trovati bloccati in casa dal lockdown imposto dal sindaco di NY, Cuomo, non si sono dati certo per vinti, hanno cominciato ogni venerdì a trasmettere in streaming una trasmissione nella quale suonavano, parlavano e condividevano con migliaia di spettatori la propria vita da “indomiti reclusi”, raggiungendo un successo inatteso. Bisogna dire che entrambi hanno alle spalle un solido passato fatto di collaborazioni importanti e concerti in giro per il mondo, ma tutto ciò non spiega appieno la bellezza del disco che hanno inciso proprio nel loro salotto, con un solo microfono, che sono qui a cercare di raccontarvi. Veramente una chicca per gli amanti del jazz e non solo, quasi un album di chillout acustico, nel quale i nostri due hanno unito le forze per suonare grandi standards, da Coltrane a Kate Bush, da “You Make Me Feel Brand New” a “Never Can Say Goodbye” della quale si ricorda soprattutto l’interpretazione di Gloria Gaynor. Beh…già che ci siamo andiamola ad ascoltare.
Grande relax e suoni soffusi per il duo della grande mela ed è così anche per il prossimo ascolto di questo articolo, la sempre bella “You Make Me Feel Brand New”.
Sarà un Natale atipico, per esempio so già che sotto il mio albero troverò solo il pavimento, ma Dezron Douglas e Brandee Younger sono una bella sorpresa, un regalo che si adatta al periodo per la bontà spontanea con il quale è stato costruito, per i suoni ovattati e morbidi, per la scelta di canzoni eccezionali. Vi lascio un po’ di links in calce consigliandovi di mettere le mani su questo album, una pepita trovata, per caso, nella melma di un mondo sbagliato.
Oggi passiamo per le orecchie un po’ di delta country blues, che non fa mai male. Il disco di cui vi parlo questa volta, ha dei forti riferimenti mistici con il mio percorso di vita, innanzi tutto perchè fu registrato nel 1984 a Groningen in Olanda, cittadina meravigliosa che ho avuto la fortuna di visitare giusto un paio di anni fa e alla quale dedicai un sentito scritto (qui), in secondo luogo per la compagnia che le canzoni ruspanti, selvatiche, di sola chitarra e voce potente di R.L. Burnside mi hanno fatto in momenti focali della mia esistenza. Secondo me questo è un album senza tempo, semplice ma irripetibile, per gli amanti del blues acustico e dei musicisti “dannati” come lo fu R.L. Burnside prima di passare a miglior vita nel 2005. Vi consiglio di leggere le note biografiche su questo “Hoochie Coochie Man” su wikipedia (questa volta ben argomentato) cliccando qui, considerato che ha condotto un’esistenza quantomeno “stravagante” e degna di un romanzo. Per quanto riguarda il momento, appoggiamo la puntina su “House Up On The Hill” e trasferiamoci momentaneamente nelle piantagioni fuori Memphis…
Dopo questa power blues ballad (definizione un po’ eclettica) dai toni laconici, vi consiglio di ascoltare la successiva e più movimentata “Poor Black Mattie” con un’andatura più vicina al rock e le atmosfere tipiche del delta del Mississippi.
R.L. Burnside è stato un artista vero e soprattutto un uomo dalla vita difficile, la sua musica venne presa in considerazione solo negli anni ’90 grazie alle sue collaborazioni con Jon Spencer e i suoi Blues Explosion, tutto il resto è storia di esistenza ai margini. Come sempre vi lascio un paio di links a fine articolo, non sottovalutate quello di Bandcamp dove è possibile acquistare il vinile (anche colorato di giallo canarino!) o il CD, che per questa opera potrebbe essere più che opportuno.
Come il prezzemolo. Di Moses Boyd è già la terza volta che ne scrivo, prima con la recensione del duo con Binker in “Alive In The East?“, poi come batterista d’eccezione in trio con la pianista ed arpista Tori Handsley in “As We Stand“, ora con il suo album solista “Dark Matter”. Ma lui non è solo un batterista dalla sottigliezza ed elettricità rilevanti, è anche proprietario di un’etichetta che produce soprattutto new wave jazz della vulcanica scena londinese, è digei radiofonico, è esperto di musica elettronica, insomma, a quanto pare è una delle figure centrali dell’attuale rinascita della scena musicale britannica. Questo suo primo album solista, “Dark Matter”, è una fusione tra elettronica, grime, soul, afrobeat e acid jazz, una miscela effetto napalm che non mancherà d’incendiare i vostri ascolti con sonorità dal baricentro basso e ben piazzato. Cominciamo ad animare l’articolo con lo sfoggio del singolo che ha anticipato l’album, “Shades Of You”, una perla soul jazz cavalcata dalla voce squillante e di vivace eleganza della poco più che ventenne cantante Poppy Ajudha. Vamos!!!
Dopo esserci scaldati con questo brano, scuotiamo un po’ le nostre anche al ritmo afrobeat di “BTB”, dove un solo pazzesco di chitarra elettrica hendrixiana vi farà rivivere i fasti lisergici di Woodstock mentre le vostre maniglie dell’amore vibreranno impazzite sul groove a testa bassa opera di Moses Boyd.
Se il sudore non vi ha ancora allagato casa e avete abbastanza energie residue per lo stretching conclusivo, restate in sintonia e premete il triangolino bianco sulla prossima “2 Far Gone”, un pezzo dominato dal pianoforte di Joe Armon-Jones che disegna virtuosismi pindarici su un’ariosa base electro ambient che richiama alla mente certi lavori dei Four Tet.
Avevo già appreso che se non sei pronto all’irriconoscenza è inutile che fai del bene. Io, quotidianamente, vi propino delle gemme di musica d’alta oreficeria, ma lo so che voi, in segreto, vi ascoltate la strafalcioneria commerciale melensa e appiccicosa che gira nei più pacchiani ed ostentati contesti della musica italiana mainstream. Il mio è un invito ad andare più a fondo perchè sono sicuro che la bella musica non si è fermata alla fine del millennio scorso, è stata solo privata dell’opportuna visibilità dai mercanti tiranni e da musicisti asserviti dalle lusinghe finanziarie del sistema globalizzato. La bella musica è sedimentata sui misteriosi fondali di un mare coperto in superficie da rifiuti cacofonicamente plastici. (Filippo Fenara)
Oggi abbiamo tra le mani, fresco fresco, l’album del 2020 del singer di Nottingham Liam Bailey: una voce che ricorda – paragone impattante ma pertinente – quella di Lenny Kravitz, con influenze reggae, soul e blues bilanciate da una timbrica avvolgente e da tappeti sonori di tutto rispetto. L’album “Ekundayo” è influenzato dalle discendenze genealogiche di Liam (suo padre è giamaicano), quindi la tendenza ad un suono roots è molto presente, sebbene non manchino episodi più attinenti ad atmosfere acustiche come la dolce e fidente “Vixit”, la finale “Paper Tiger” che strizza l’occhio a Stevie Wonder e Frank Ocean o la canzone che sto per farvi ascoltare, la splendida ballata soul blues “Don’t Blame NY”…
Un album che, attraverso le 13 tracce che lo compongono, rispolvera i canoni della black music con uno stile retroinnovativo conferito da quella patina di civismo che permea tutto il lavoro. L’ingrediente segreto di questo bel disco è sicuramente quell’aura di ottimismo fiducioso, presente anche nelle impronte più malinconiche, che ne permette un livello tensivo di rilasso senza mai scadere nella noia o in brani utilizzati come insipidi riempitivi. Direi che siete ormai nel mood giusto per calarvi nel pit ragga lover di “Young In Love” dove potrete avvertire le good vibes che l’incisiva voce di Liam Bailey propaga…
Credetemi, “Ekundayo” è un album molto gradevole, bilanciato e musicalmente profondo dall’inizio alla fine, ma mi ero ripromesso di non lasciarvi andare senza mettervi la pulce nell’orecchio dell’acustica “Vixit”, veramente un linimento per anime sdrucite…come la mia.
Augurandovi un buon ascolto vi lascio, in calce, tutti i riferimenti di questo eccezionale artista dal sapore internazionale ma con una voce che ve lo farà immaginare mentre canta seduto sul divano di casa vostra. (Filippo Fenara)
Kristin Hayter, 34enne Californiana polistrumentista e cantante dall’impostazione classica, ha dato alla luce, dopo varie esperienze in bands noise metal e sperimentali, al progetto “Lingua Ignota”, di cui ho scelto l’album autoprodotto “All Bitches Die” (la title track ha ispirato la mia composizione in apertura articolo) per avere l’occasione di parlarvi di quest’artista molto interessante sotto i profili musicale, lirico e sociale, facendovi ascoltare, nel frattempo, alcune tracce dell’album.
Profilo musicale: barocco, black metal, musica classica, death metal, industrial metal, doom metal, elettronica, metal estremo, noise, sperimentale, opera, musica devozionale, folk, sono solo alcuni degli ingredienti della magica pozione che caratterizza la musica di Kristin Hayter, capace di balzi divini come di sprofondi nelle melme dell’inferno più oscuro, una sonorità nomade che simula la sconfinata libertà così come la più claustrofobica e violenta delle ossessioni. Oltre alla sua tecnicissima e ultra versatile voce, contribuiscono allo spessore sonoro un’elettronica dosata con sapienza e vari strumenti acustici, tra i quali spicca il pianoforte.
Profilo Lirico: i testi di “All Bitches Die” sono ispirati fondalmentalmente dalle tematiche degli abusi sulle donne e delle violenze domestiche, delle quali la cantante californiana è una sopravvissuta. Trascendendo i limiti terreni dell’espressione, Kristin Hayter si pone come portavoce della parola del Dio cristiano per creare degli anthem che diano voce al silenzio imposto da un mondo dove vige il regime della famiglia patriarcale, un diffuso pensiero “fallocratico” che getta nel dolore e nell’avello degli abusi “distrattamente tollerati” milioni di donne, ragazze, bambine, ma non solo. La violenza generata da questa schizofrenica ed archetipica impostazione della civiltà tende a sgretolare sotto la propria arrogante mole tutti i soggetti “deboli” o “indifesi” ed è questo che metaforizzano le parole e la musica di Lingua Ignota alla guida di un movimento di ribellione ai dogmi, in nome della salvezza e dell’emancipazione.
Profilo Sociale: di questo punto ne ho già parzialmente trattato sopra, ma la battaglia sociale di Kristin Hayter merita un’ulteriore sottolineatura ed evidenzazione, soprattutto in un epoca nella quale i problemi delle violenze sessuali e domestiche sono stati relegati in maniera commercialmente ipocrita in due striminzite ricorrenze, come se negli altri 363 giorni dell’anno il dramma non si riproponesse con sempre maggiore intensità e ferocia, oltre ad acquisire una continuità trasversale e generazionale inspiegabile e inaccettabile. La parola e la volontà di questa artista sono commoventi e meriterebbe, sia per la qualità della musica, sia per la dignità del messaggio, di essere insegnata nelle scuole durante l’ora di storia o educazione civica, altro che nozioni da imparare a memoria come degli automi.
Musica che emoziona, musica che fa riflettere, musica che salva, musica che abbraccia gli indifesi, musica che sbrana gli aggressori, musica e dignità, musica e civiltà. La musica di Dio nel corpo oltraggiato di Kristin Hayter. (Filippo Fenara)
Di seguito i links per i due album di Lingua Ignota sulla spotiffa:
Ho passato l’adolescenza negli anni ’80 e, per via del mio carattere solitario e poco incline all’omologazione e alle lusinghe delle mode consumiste, mentre i miei coetanei ascoltavano i Duran Duran, gli Spandau, i Pet Shop Boys e Belinda Carlisle (!), io giravo per Bologna con il walkman, le cuffiette e lo zainetto pieno di cassette duplicate di gruppi post punk, hardcore, thrash metal: mi si reputava uno “strano”, perchè snobbavo le mode e le discoteche ma, contemporaneamente, non volevo far parte nemmeno dei punks e metallari assiepati il Sabato pomeriggio davanti al Disco D’oro, incrociando i dark mi toccavo i maroni e gli adulti erano, secondo la mia ottica, una mandria di pecoroni ipocriti che facevano a gara per addossare colpe e responsabilità alle generazioni successive alla loro. Insomma, stavo sul cazzo a tutta la città e tutta la città mi stava sul cazzo. Io la presi con filosofia, rispondendo all’esclusione matematica con bombardamenti d’ironia e sarcasmo sull’autocontemplazione vanagloriosa dei vari gruppetti divisi per genere, il mondo esigeva che mi accasassi in una categoria tra quelle predefinite, purtroppo, arrivato a 48 anni, il mio rifiuto è diventato sempre meno tale e ha preso la forma di una scelta serena, consapevole e irritrattabile. Questo proemio per introdurvi proprio al debutto di un gruppo, gli Sweeping Promises, che ha appena pubblicato l’album “Hunger For a Way Out“, una meravigliosa gemma di post punk in stile anni ’80 che mi ha fatto sentire meno solo e mi ha ricordato le origini del rifiuto verso tutto ciò che è ridicola finzione. La band è originaria di un quartiere depresso e periferico di Boston, tecnicamente mirano al minimalismo, il vero cursore del disco è la voce vivace e velata di malinconia della cantante Lira Mondal, l’allegoria dello “scazzo” e dell’incurante ripudio di tutte le sovrastrutture del vivere urbano. Durante l’ascolto dell’album, il kick della batteria è ripetitivo e autoreferente, così come i colpetti al basso che fanno così “prove in cantina”, la chitarra è l’unico strumento che si “permette”, in alcune canzoni, di essere più protagonista e meno “soffocata”, come nella traccia “An Appetite”, che andiamo ad ascoltare.
Sappiate, amici miei, che il mood di tutto il breve album (circa 30 minuti in tutto), non subisce variazioni di sorta e questo, invece di risultare noioso, è assolutamente rassicurante, dà l’idea di passeggiare a vuoto tra palazzoni sporchi, negozietti gestiti da indaffarati gerenti pakistani, baretti malfamati, sgambatoi dove gruppetti di giovani si rifugiano per fumare in pace, macchinoni che sfilano per le strade a bassa velocità in modalità di maraglia ostentazione: questo disco è meravigliosamente elementare nel suo crudo potere evocativo e illustrativo del grottesco periodo di cui siamo spesso più spettatori che protagonisti. Andiamo ad ascoltare ora un’altra impronta, vi farei sentire la title track “Hunger For a Way Out” che, in alcuni punti, ha dei richiami al beat anni ’60 pur mantenendo quella spensierata decadenza che caratterizza gli Sweeping Promises.
Per riassumere, un album, come ho già scritto, elementare ma imprescindibile in quanto simbolo dello sciacquone che risucchia nelle viscere del nulla milioni di canzoni, stili, ostentazioni e bizzarrie del music business e dello star system. “Hunger For a Way Out” è il tasto di reset per chi lo sa apprezzare nella sua disinibità nudità e racchiude una provocazione gigantesca nei confronti di tutto quel sovrastrato della società che ti intima di scegliere tra strade tutte uguali ma tu, sogghignando, giri le spalle e te ne vai a conquistare un altra giornata da persona libera. (Filippo Fenara)
Dopo il lungo tunnel elettronico che ho fatto attraversare ai lettori di LeMieCose nei giorni passati, ora accendo una luce che avrà un effetto accecante dopo tante atmosfere notturne: questo (audio) bagliore prende il nome di Tori Handsley, una pianista, tastierista ma soprattutto arpista anglosassone che, con gli eccezionali musicisti Ruth Goller (basso) e Moses Boyd (batteria) ha dato vita a questo incredibile album “As We Stand” che definire “Jazz” è sicuramente limitativo, viste le contaminazioni rock, dub e classiche, che emergono dall’ascolto dell’intero lavoro. Diciamo che il Tori Handsley Trio, è un’evoluzione di quel discorso che iniziarono ormai vent’anni fa gli Esbjorn Svensson Trio, è un’avanguardia jazz che racchiude in sè la libertà espressiva e quella di divincolarsi dai dogmi conservatori di un pubblico, a volte, dai gusti molto rigidi. Questi musicisti fanno giustamente parte di quel movimento progressista tipicamente nord europeo che viene definito “New Wave Jazz”, viste anche le collaborazioni e le jam sessions che mischiano i musicisti appartenenti alle diverse bands come, ad esempio, ha fatto Tori con i già recensiti Binker & Moses nel loro album “Alive In The East?“.
Siamo sinceri, il suono dell’arpa è magico, rilassante, paradisiaco, per dieci minuti. Poi rompe i maroni. Credo che sarebbe d’accordo con me anche Tori che, da bambina, dovette abbandonare dopo qualche anno di studio l’arpa per dedicarsi al pianoforte, visto che tutti gli insegnanti a disposizione erano d’impostazione classica: fu lei stessa, dopo anni, a riprendere in mano lo strumento ed affrontarlo con la sua attitudine punk, filtrandolo con distorsori, effetti, mettendone in discussione le regole prestabilite ed improvvisandone assoli nei cupi clubs jazz di Londra e dintorni. Un trionfo, e ora ve ne faccio sentire un assaggio con l’emblematica “Rivers Of Mind” traccia d’apertura dell’album e stupefacente incrocio di stili e voli pindarici d’arpa, sorretta da una sezione ritmica a dir poco virtuosa.
Dopo questo lancio musicale senza paracadute, facciamo un morbido e tecnico atterraggio nell’avanguardia di “Convolution” dove Tori Handsley si esibisce al piano con sonorità affini ai neri mari del nord Europa, anche questa volta non si può non rimaner sbalorditi dalla performance eccezionale di basso e batteria, a livelli stratosferici.
Eh sì, questo brano appena ascoltato ricorda proprio gli E.S.T. del compianto pianista Esbjorn Svensson per il quale scrissi una cosa tempo fa che potete rileggere qui. Concludiamo lo spiedino degli ascolti con “Kestrel” che ospita la suadente voce della cantante Sahra Gure, una traccia rilassante che vi condurrà in un mondo fatato con suoni dolci e ovattati ed atmosfere magiche.
Per quanto mi è piaciuto e mi piace “As We Stand”, avrei voluto farvelo ascoltare tutto, è un viaggio emozionale che non stanca mai, non mostra cali tensivi o impronte sotto una certa media stilistico creativa. Lascio a voi il piacere di immergervi nelle acque limpide del Tori Handsley Trio tramite la spotiffa linkata sopra il titolo dell’album o, se avete un animo collezionista, cliccate qui e potrete acquistare CD, vinile o files digitali scaricabili direttamente dalla bandacampa. (Filippo Fenara)
Occhei, giuro che da domani interromperò questa trafila di recensioni di album trip hop, downbeat, hip hop instrumental e mi dedicherò ad altri generi, sempre di nicchia, ma a mio modesto parere meritevoli di un ascolto che non sia il flauto magico con cui ci vogliono incantare i centri di potere. Come dicono “loro” appunto, “l’ho fatto per il vostro bene”, poi ci difendono da una pandemia globale senza assumere dottori (che mi sembrerebbe ragionevole), ma schierando, come già annunciato da giorni, 70.000 militari per controllarci durante le notoriamente bellicose e assembranti feste natalizie. Ora capisco perchè gli alieni non hanno mai voluto conquistare la terra e condivido la loro scelta per affinità di buonsenso.
GILA (scritto rigorosamente in maiuscolo) è un produttore di musica elettronica ambient / downtempo di Denver, devo dire subito che sto ascoltando con una certa frequenza il suo ultimo lavoro “Energy Demonstration” che, per quanto abbia provato a cercare il pelo nell’uovo, non mostra nessuna minima sbavatura. Suoni azzeccati, beats dall’architettura semplice e trainante senza cadere nello sperimentale incomprensibile, atmosfere ambient delineate da morbidi e ben miscelati tappeti di synth, pochi campionamenti dosati con buon gusto e, a differenza degli ultimi dischi che ho recensito, nessuna ingerenza o tangenza con il mondo hip hop. Se devo dire la verità GILA, più che gli eterni Kraftwerk (ai quali gran parte dei produttori di musica elettronica fa un più o meno evidente riferimento), mi ricorda come sonorità gli altrettanto bravi Art Of Noise, ovviamente in chiave meno pop ed evoluti al 2020. Comincerei subito con uno dei due brani che andremo ad ascoltare, la traccia che mi ha lasciato sgomento e ha scatenato vibrazioni poderose nella mia anima di carta velina spingendomi ad ascoltare l’intero album: s’intitola “Buffalo 2 Miami” ed è una potente scarica di adrenalina in formato digitale che instaura un clima di suspence e thrill veramente rari.
Ora vi lascio prendere una quindicina di gocce di Lexotan, che agirà come depressore sulle esagerate emozioni che vi avrà scaturito l’impronta precedente, le altre 15 tenetele in caldo per l’hangover che vi lascerà il pezzo successivo, secondo me ancora più motivante. Si chiama “Death Slump” l’ho abbinato qualche giorno fa alla mia “Uomini e Donne Sono Di Versi” ma credo che non ci siano parole giuste per fare da contorno a questo cesello digitale.
Vai col Lexo e chiudiamo la seduta: cosa volete che vi dica, so che non volete tradire la riflessiva e sperimentale opera musicale di Francesco Gabbani, ma provate ad ascoltare questo album sulla spotiffa (il link è sopra) oppure, se siete già degli appassionati del genere, datemi un abbraccio virtuale e cliccate qui se avete intenzione di acquistare sulla bandacampa (sotto la panca la bandacrepa) “Energy Demonstration” in CD, Vinile oppure in formato digitale. (Filippo Fenara)
A questo punto non mi offendo se mi viene criticato il fatto di avere dei gusti musicali un po’ troppo ricercati e di nicchia, è tutto assolutamente vero, la mia curiosità unita all’allergia per il mainstream mi fanno condividere e recensire artisti e album che probabilmente apprezzo e conosco solo io. Anzi no. Ho realizzato che tanti generi musicali underground hanno molti più fans all’estero piuttosto che in Italia, facendomi pensare che la tradizionale cultura musicale italiana si sia fermata agli anni ’70, ora è tutto un fatto d’intrattenimento induttivo di massa che dipende da pochi famosi artisti come Vasco, Tiziano Ferro, Negramaro, Jovanotti e Ligabue. Ah, scusate, dimenticavo Kekko dei Modà. Non sia mai. Non prendo nemmeno in considerazione i prodotti dei succitati cantautori (a parte rarissime eccezioni come Salmo che stimo molto) benchè potrebbero garantirmi più follower e maggiori likes, la mia preoccupazione è l’involuzione culturale degli ascoltatori, forse non avvertiti che, dopo gli anni ’80, fuori e dentro confine, sono successe parecchie cose in ambito musicale, forse non sono stati scaricati gli aggiornamenti di sistema. Vabbè. Io, nel dubbio, vado avanti e vi parlo dell’album “Khruang Phrung” del collettivo di djs e beatmakers 545, formato da D-Styles, Excess, Mike Boo e Pryvet Peepsho che con i loro giradischi, campionatori e mixers hanno dato vita, tra le viuzze di Bangkok in Thailandia, ad un lavoro di trip hop e turntablism di notevole fattura. Nella versione scaricabile dell’album che si può acquistare ed ascoltare in anteprima cliccando qui, sono presenti alcune tracce in più rispetto a quella streaming della spotiffa linkata sopra e, guarda caso, sono quelle che mi piacciono di più, per cui io ho proceduto ad un esborso di € 10 che non penso mi verrà restituito dalla strampalata operazione commerciale “cashback”. E io pago. Ovviamente su TuTubi questi brani non sono presenti, vorrà dire che vi darò un antipasto con due beats scelti tra gli altri dell’album. Beh, una delle tracce sicuramente più coinvolgenti e ipnotiche è “Dirty Ice”, soundtrack da bassifondi, profumo di catrame e ratti che rovistano nella spazzatura. Forse non tutti gradiranno l’ultima immagine che ho dato, comunque sia, andiamo avanti.
Procediamo con un brano che potrebbe accompagnare un film d’azione o di spionaggio che, pensate, su TuTubi ha già raggiunto le 25 visualizzazioni. Meglio se stavo zitto, comunque la traccia è “Spy Baht”…
Occhei, non sono molto famosi nemmeno all’estero, ma se piacciono a me, perchè non dovrebbero essere un buon sostitutivo della vostra colonna sonora quotidiana rispetto ai cantautori degli anni ’70 o, in alternativa, ai cuoricini sonori che emette Kekko dei Modà? (Filippo Fenara)
In un momento di felsineo “fer gninta” (far niente) sono salpato sull’oceano della spotiffa verso le lande del nord Europa a caccia di quel jazz d’avanguardia del quale sono maestri da quelle parti. Linka che te linka, sono casualmente approdato, dopo essermi imbattuto in turbolente tempeste di death metal scandinavo, in questo artista di Malmö dallo psedonimo di Summer Heart (all’anagrafe David Alexander) che, di primo acchito, non rispecchiando i generi psicotici che ascolto abitualmente, avrei voluto skippare passando ad altro; poi è venuto su il caffè e me lo sono gustato in balcone, fumando una sigaretta con lo sguardo perso nell’orizzonte civico mentre la riproduzione dell’E.P. “Ambitions” continuava imperterrita. Ebbene è stato un momento di trance ipnotica che mi ha permesso di viaggiare nel tempo, tornando ai primi anni ’80, con quei suoni electro pop ovattati e melodiosi, con quei testi che guardavano al futuro con incrollabile fiducia, con la “crescita” come imperativo e la libertà come punto di riferimento per tutti i sogni dei giovani del tempo. Ora sappiamo che non è andata così, la fiducia che riponevamo nell’occidente è stata tradita dalla mancata sostenibilità dell’archetipo sociale capitalistico e ora il mondo si trova in un grosso guaio. Summer Heart, nel mio viaggio mentale, mi ha riportato ai miei anni di adolescenza e mi ha riattivato la memoria del contesto facendomi ricredere sulla possibilità paventata dalla “retrotopia” di Zygmunt Bauman e dalla “decrescita serena” proposta dallo scienziato Serge Latouche. Questo per trasmettervi la perseveranza di Summer Heart nel sogno di libertà che esterna in “Motorcycle”, nei sentimenti estesi all’infinito di “Good Together”, nell’apertura al miglioramento (che, ribadisco, non sempre coincide con la “crescita”) di “Ambitions”, il tutto con suoni fedeli al pop anni ’80 e con un tenace grip sull’anima dell’ascoltatore. È proprio “Ambitions” che andiamo ad ascoltare…
Dopo tanti anni di disillusione nei confronti del mondo e del genere umano ho capito che nella vita c’è bisogno anche di illudersi, di sognare, di liberarsi dai condizionamenti e percorrere liberi le strade del pensiero, perchè la fiducia nel futuro – defraudata dal presente – è comunque una profezia autoavverante: se non si coltiva un idea di miglioramento, il miglioramento non avverrà di sicuro e viceversa. Mentre fagocitavo questi pensieri le casse suonavano “Motorcycle”, un inno alla libertà che i motociclisti capiranno subito, io ci sono arrivato un po’ dopo perchè, dopo la Vespetta, ho avuto ed amato solo biciclette, ma il brano – che andiamo ad ascoltare – di Summer Heart ha avuto un effetto energizzante sul mio abitualmente cinico pensiero.
L’E.P. “Ambitions” di Summer Heart è stato pubblicato quest’anno ma è un album retroattivo. Io c’ero negli anni ’80 e sebbene a quei tempi ascoltassi solo heavy metal, mi sento uno dei tanti traditi dal sistema, per cui mi sono ritrovato e riavuto grazie a questo suono, sono quantisticamente tornato ad un check point fondamentale e mi ha fatto bene. Sono sicuro che farà bene anche a chi è nato dopo, per non cadere nell’incantesimo e nelle lusinghe del capitalismo, preferendo il sogno all’acquisto. (Filippo Fenara)
Dovete sapere che, circa 26 anni fa, di ritorno da un viaggio in Olanda, mi fermai a prendere…un tè caldo al Bulldog Palace di Amsterdam, seduto in uno dei due tavoli nella piccola veranda esterna. Nell’altro tavolo ci stavano tre ragazzi che chiacchieravano…bevendo un tè caldo. Ad un certo punto entrarono nella veranda tre splendide giovani d’ebano che mi chiesero, a causa della penuria di posti a sedere, se potevano accomodarsi nel mio stesso tavolo, sulla panca di fronte per…bere un tè caldo. Seppure mi sentissi deflorato nella mia estasiata solitudine, concessi alle ragazze il permesso e loro cominciarono a chiacchierare. Arrivato il loro…tè caldo, decisero di mettersi a cantare, con splendide armonizzazioni, delle canzoni di r’n’b accompagnandosi con il solo battito delle mani e lo ricordo come uno dei momenti d’estasi totale nel mio girovagare il mondo. Comunque buono il…tè caldo. Vi ho raccontato quest’aneddoto perchè IAMDDB, giovane cantante di colore britannica (nata in Portogallo e trasferitasi all’età di 6 anni a Manchester) è l’unica che, con le sue melodie e la sua timbrica di matrice jazz (il padre è un sassofonista) mi ha fatto rivivere quel contesto glorioso e fiabesco che spero di condividere con voi, in cambio mi accontento di un…tè caldo. La musicista di Manchester scrive canzoni dalla tenera età di 7 anni, ha all’attivo la prestigiosa collaborazione con i Flying Lotus e si è esibita in apertura di numerosi concerti di Lauryn Hill. Il suo lavoro che preferisco è sicuramente questo E.P. minimale del 2017 intitolato “Vibe Vol. 2” del quale andiamo subito ad ascoltare un paio di tracce vibranti come i sonagli di un serpente. Cominciamo con la splendida “Pause” dove con solo un basso ed una batteria elettronici e un synth d’accompagnamento melodico, Diana De Brito aka IAMDDB produce più energia di una centrale nucleare.
Vi è piaciuta? A me questa voce che dipinge di colori decisi la tela solida del carpet di base ricorda tutto il background della 24enne cantante britannica riassunto in un pezzo che ha registrato un successo considerevole: solo questa traccia ha realizzato più di 9 milioni di streams sulla spotiffa, dato statistico che non mira ad influenzare i vostri gusti personali, ma dovrebbe mettervi la pulce nell’orecchio su quello che è in grado di spostare lo stile canoro versatile di IAMDDB. Ora vi concedo l’ascolto di “Teardrops” con il featuring del rapper Mugun, un brano che a me fa accapponare la pelle, fermo restando un approccio minimalista ed una metrica lirica ripetitiva quasi all’ossessione che fonde un motivo orecchiabile ad una sorta di tribalità retaggio delle esperienze musicali in Africa assieme al padre.
Ora: il mio consiglio è quello di andare ad ascoltare un po’ di cose di questo giovane talento dalla voce suadente e rara e curiosare sulla sua pagina Facebook, magari mettendo un like, magari riconoscenti per le sensazioni che questa musicista vi ha trasposto. Per quanto mi riguarda, vi auguro un buon ascolto mentre, ovviamente, vi gustate un buon…tè caldo. Fumante. (Filippo Fenara)
Oggi vi scrivo di Sly5thAve, all’anagrafe Sylvester Uzoma Onyejiaka II, un polistrumentista, produttore, arrangiatore e compositore statunitense che ha suonato e lavorato con i capisaldi della black music e dell’hip hop mondiale (Prince e Stevie Wonder per citarne solo un paio…) ed è coinvolto in una serie di progetti, sempre di matrice nera, che danno vita ad album di spessore culturale e musicale al livello successivo. Prima di raccogliere informazioni su questo navigato apostolo del suono, mi ero già lasciato ammaliare da “What It Is” il suo lavoro di quest’anno, una produzione raffinata, elegante, sofisticata ma accessibile a tutti, che racchiude in sè tutte le precedenti esperienze di Sly5thAve e che mette in luce il talento di ospiti artisticamente eccelsi come le cantanti Denitìa e Melissa McMillan oltre ai rappers / vocalists Sene e Brian Marc o il beatmaker Lexus. Ora vi farò assaggiare tre brani estratti da “What It Is” con la speranza che questa musica trasmetta a voi lettori lo stesso mood che ha generato in me, una stilosissima miscela di r’n’b, soul, rap che rilassa e stupisce per la meticolosa cura dei dettagli. Cominciamo proprio con la traccia d’apertura, “Boulevards”, una passerella acustica solcata dalla voce ammaliante di Denitia.
Un altro brano, orchestrato magistralmente, dal sentore di rap FM anni 80/90, è la title track “What It Is”, dove oltre al già citato Lexus, stringe il MIC il rapper Science: siamo ad un lacida e vibrante godibilità acustica, i vostri vicini, se alzate il volume, ve ne saranno grati.
Scendiamo dal “treno degli ascolti” all’onirica, romantica e nostalgica stazione di “The Night” dove la “leonessa” Melissa McMillan mette sul carpet note vocali come fossero carezze sulle guance.
Un bellissimo album dai profumi sofisticati e avvolgenti, dalla variegata gamma di influenze accomunate dall’esperta mano di Sly5thAve il link sulla spotiffa ve l’ho lasciato sopra, non vi resta che deliziare i vostri palati fini con questo Sassicaia in note nere, aspettando la seconda parte (Venerdì prossimo alle 16 su queste frequenze) dedicata a questo artista e all’album nel quale ha arrangiato e diretto un’orchestra nelle cover dei successi dell’inarrivabile Dr. Dre. (Filippo Fenara)
The Vision sono un duo nato nel 2017 frutto della collaborazione tra il dj, produttore e cantante Ben Westbeech (Bristol), e il produttore Kon (Boston), che ha dato alla luce il suo primo album omonimo proprio in questi giorni, una sapiente e raffinata miscellanea tra soul, r’n’b, house, dance e funky. Numerosi sono gli / le ospiti alla voce, sicuramente la più presente e conosciuta a livello internazionale è Andreya Triana, eccezionale vocalist che, oltre a pubblicare diversi album ha collaborato in passato con “mostri” del trip hop come Tricky e i Bonobo. Il disco è carico di adrenalina positiva e non mancherà di entusiasmare sia i nostalgici della dancefloor anni ’70, sia gli adepti dell’house music, fino ad arrivare ad un pubblico più giovane grazie alla freschezza delle tracce pubblicate. Cominciamo l’ascolto di un promettente “riempipista” come potrebbe esserlo “Down”, brano che mostra subito il vasto range di generi che i The Vision abbracciano. In questo caso la voce è di Dames Brown.
Se avete finalmente finito di scuotere le vostre anche al ritmo house funky di “Down”, passerei ad un’impronta raffinatissima cantata da Ben Westbeech che vede la collaborazione suprema al vibrafono del pioniere dell’acid jazz Roy Ayers. Il titolo è “Wasting.
Ancora estasiati, concludiamo il treno degli ascolti a campione con il pezzo più soul dell’intero disco, la conclusiva “Home” dove possiamo tastare con mano le indiscutibili qualità canore di Andreya Triana.
Tirando le somme, “The Vision” è un gran bel disco, di facile ascolto, senza pretese eccessivamete commerciali o, per l’altro verso, sperimentali, è come una bibita fresca da deglutire ad ampie sorsate dopo una logorante giornata di lavoro, per riassettare il buonumore e il buon sentire ed è consigliato dall’associazione medici psichiatri come antidepressivo senza effetti collaterali. (Filippo Fenara)
La casualità ha voluto che, senza accorgermene, programmassi di seguito due articoli i cui creativi, uno narrativo e l’altro musicale, portassero lo stesso cognome, ossia “Graziano”. Così come è stato casuale l’ascolto di questo sorprendente album del 2017 del pianista fiorentino Simone, finalmente un’avanguardia all’altezza dell’evoluzione jazzistica internazionale con il richiamo a pionieri del genere come gli E.S.T. ed i Bad Plus. “Snailspace” è un disco che fonde musica d’ambiente, ritmiche rock, un tocco di elettronica e pianismi al confine tra jazz e musica classica, in un caleidoscopio immaginifico ampio ed evocativo fino ad assumere un tono onirico variegato nei suoi repentini cambi di ritmo, nelle sue atmosfere che saltano dalla frenetica “Emicrania” alla rarefatta “Neri”, tutto questo grazie anche al contributo fondamentale di due eccezionali musicisti come Tommy Crane (batteria) e Francesco Ponticelli (synth e contrabbasso). Vorrei comunque portarvi per mano all’ascolto della prima traccia dell’album, intitolata “Tbilisi” che produce un climax di estemporanea meraviglia e stupore nella disomologazione dai dogmi imposti dal jazz tradizionale.
Ora passiamo alla repentina e civica “Emicrania” che da ritmi serrati e melodie asciutte si apre in momenti più floreali e melodici, proprio come il flusso pulsante e ondulatorio del mal di testa. Visto che, come scritto sopra, questo è l’articolo delle coincidenze, proprio ieri mattina ho pubblicato una piccola cosa intitolata “Non Mi Passa” riferendosi proprio all’emicrania…mah! Passiamo comunque all’ascolto del brano…
Chiudiamo la serie di ascolti con la mia preferita, “July 2015”, probabilmente la meno sperimentale, la meno tecnica, la meno influenzata da suoni sintetici, ma di certo la traccia con l’elocuzione più distensiva e laboriosamente cesellata dal trio di musicisti.
Non ho avuto ancora il tempo di ascoltare gli altri lavori di Simone Graziano, sono comunque contento di avervi messo la pulce nell’orecchio con questo formidabile “Snailspace”, portatore sano di musica italiana di livello e vera delizia per le nostre orecchie, tormentate in continuazione da cacofonie da bottega partorite da inaffidabili commercianti. (Filippo Fenara)
Più che Presentando Rap Presentando, dovrei intitolare questa rubrica “Le Recensioni Improbabili” considerato che gran parte degli artisti dei quali traccio un contorno e che mi piacciono, sono spesso sconosciuti al grande (ma anche al piccolo) pubblico.
Def Sound è un rapper, produttore, poeta, attivista e dj nato e tutt’ora di stanza a South Central Los Angeles, uno dei quartieri più poveri, disagiati e, di conseguenza pericolosi, della metropoli californiana. A questo punto ci si aspetterebbe un disco di gangsta rap o di spietata e cinica trap, invece il nostro si prodiga a riconoscere le sue discendenze afro latine e, in questo lavoro in particolare, si propone come antidoto al distanziamento sociale, promuove il ritorno della chimica tra esseri umani, attraverso la fisica di un “qui” universale. A livello musicale, molti amanti dell’hip hop puro (ammesso che esista una legge di “purezza” come per la birra in Germania) storceranno la bocca all’ascolto, non approveranno il crossover con basi house (di ottima fattura e influenzate dal primo suono di Chicago), si sentiranno spiazzati dalla positività propositiva delle sue liriche cariche di speranza e sprovviste della depressione maniacale che sta contagiando le anime e l’espressione di numerosi artisti contemporanei. Io ritengo “Huem_n” un album musicalmente valido che non si costringe e colloca in nessuna etichetta di mercato, pur rimanendo un lavoro tendenzialmente hip hop di gradevole fruibilità che si staglia nei sotterranei degli artisti emergenti per l’attitudine black e l’ottimismo che trasuda l’ascolto. Per provarvi ciò che ho appena scritto passiamo all’ascolto di una splendida e raffinata traccia house intitolata “Green Tree Tops”.
Dopo questi luccicanti riflessi da stroboscopio, passiamo ad una song decisamente più “tradizionalmente hip hop” come “Miskeen Tree” che mantiene comunque un’aura di positività grazie anche agli interventi spot di coriste e guests, parti di archi e strumenti acustici.
Concludiamo con la traccia “ibrida” che chiude l’album, dal titolo “Sierra Neonè”, con la determinante partecipazione di Jimetta Rose, su una base che ricorda la drum’n’bass.
Un gran bel disco variegato e positivo che spezza la depressione claustrofobica da lockdown, è indicato a tutti gli ascoltatori, anche i meno avvezzi all’hip hop, Def Sound è un generatore di vita, senza cadere in jovanottiane banalità commerciali. Buon ascolto. (Filippo Fenara)
Dev’essere un tipo parecchio introverso questo Emapea. L’unica cosa che si evince dalla rete è che è di origini polacche. Null’altro. Io lo seguo con passione dall’eccezionale “Seeds, Roots And Fruits” che mi è stato d’ispirazione per numerose cose che ho scritto, ma stasera parlerò del suo ultimo album “Jazzy Vibes Instrumental” del quale esiste anche una versione rappata dall’emsì Kid Abstrakt ma, onestamente lo trovo molto meno impattante e chillout. A proposito, Emapea, è un produttore di basi hip hop che spesso incrocia con samples e strumenti jazz per creare atmosfere di lusso acustico, può essere erroneamente inserito nella categoria della chillout music ma il nerbo e le radici non mentono, il flusso è rilassante ma anche di spessore musicale. Infatti comincio con il farvi ascoltare – ma solo se avete in caldo la spotiffa perchè Youtube non risponde – la tosta “Deeper Than Rap” dove un carpet notturno viene cavalcato da campionamenti di vibrafono e, sul finale, un sassofono ne amplifica la profondità. Di seguito vi consiglio un play sulla raffinata e misteriosa “Airplane Mode“, dove un beats trotterellante viene surfato da un ipnotico sample di pianoforte e da echi di voce in stile dub in un contesto molto sala da tè. Chiudo questa breve carrellata con “It’s all good“, con un tappeto trascinante, di quelli che vi fanno inclinare la testa a tempo come in un “sì” ripetuto fino alla fine del brano, senza perdere in classe e pacatezza sonora. Insomma, un disco rilassante sopra il quale chiacchierare amabilmente con amici ed amiche, capace di creare quello stato psicofisico propedeutico alla creatività artistica, oppure può lussuoso sottofondo che sostituisce le gracchianti amenità trasmesse dalla televisione. Buon ascolto. (Filippo Fenara)
Questa è una recensione per chi, negli anni ’90 ha vissuto in pieno il periodo di svolta della musica elettronica che prese a braccetto le sonorità hip hop per dar vita al trip hop e strizzò l’occhio al raggamuffin e ai toasters nello stile Jungle. Parlando proprio di quest’ultimo genere, ho avuto l’occasione di sentire e poi riascoltare a ripetizione, l’album “Addict” dei Dub Pistols, una compagine inglese fondata proprio nel 1996, che conta al suo attivo diversi albums, collaborazioni e colonne sonore sia di films che di videogiochi. Il dubbio che mi rimane è cosa possa aver spinto, se non la passione, il gruppo a pubblicare nel 2020 un album di – stratosferica – jungle, proprio nel periodo in cui non se ne sente più parlare, quasi fosse un retaggio dimenticato nel decennio pre terzo millennio. A parte la scelta apparentemente antieconomica, il disco è un ordigno composto da tappeti muscolosi e curatissimi cavalcati da toasters encomiabili per stile ed intensità espressiva, ogni volta che premo play mi ritrovo sudato a ballare fino alle 6 di mattina nelle sale spoglie del vecchio “Link” di Bologna, un locale autogestito o, forse è meglio dire, un centro sociale che prese parte al ribollente fermento artistico felsineo degli anni ’90. Premettendo che tutte le canzoni del disco sono eccezionali, nessuna esclusa, ci ascoltiamo assieme tre tracce che a me hanno trasmesso un’energia positiva smodata il tutto “preparato e confezionato” da grandi professionisti: cominciamo con la title track “Addict”.
È incredibile come dopo una partenza “diesel” il pezzo si scateni in rime e beats simbiotici fino al civico ritornello che, in italiano, recita “dipendente dalla linea di basso”. Folgorante. Ora sentiamo direttamente l’ultima impronta del disco “Soundboy” che mi fa impazzire per la scarica adrenalinica che scatena e per lo stile raggamuffin interpretato con una tecnica impressionante dal bravo Cheshire Cat.
Andiamo a finire con l’altrettanto splendida “Two Generals” dove il red carpet elettronico di basso e batteria è un invito a nozze per la coppia di toasters Ragga Twins.
Questo dei Dub Pistols è un album inaspettatamente skilloso, stiloso e avvolto da un’aura vintage che lo rende ancora più affascinante e trascinante. Uno dei lavori, ovviamente per gli avvezzi al genere, più belli usciti negli ultimi anni, straconsigliato. (Filippo Fenara)
È un periodo in cui tutti si sentono in dovere di dare un’opinione, si dice tutto e il contrario di tutto, lo scompiglio dell’enorme flusso di voci individuali mi causa una preoccupante elefantiasi gonadiale: è per questo che non accendo la televisione, prendo psicofarmaci prima di tuffarmi nei social alla caccia di pareri affini al mio pensiero e alla direzione che, per osmosi, sta prendendo Lemiecosepuntonet, mi nutro di silenzio e, soprattutto, traggo ispirazione dalla musica strumentale di derivazione elettronica, trip hop, hip hop o jazz: oddio, cadere nelle banali sabbie mobili della musica molliccia chill out non è mai stato il mio sogno ed è un pericolo che sto correndo ma, scavando in profondità negli angoli più bui della rete, si possono ancora estrarre succhi acustici prelibati o almeno dignitosamente audioedibili. In quest’ultima definizione farei giacere Blockhead, un produttore, musicista e digei originario di Manhattan, New York. Nell’ultimo periodo mi ha tenuto molta compagnia il suo album del 2019 “Bubble Bath“, un bel compromesso tra carpets hip hop con i controfalli e le atmosfere trasognanti degli arrangiamenti chillout, un lavoro raffinato dove anche il più piccolo dettaglio non è lasciato al caso, il contesto è rilassato ma non troppo ripetitivo e noiosamente ipnotico, ogni traccia ha un climax ascendente, dove si aggiungono, lentamente, beats potenziati, samples, voci e sintetizzatori. Una traccia simbolica è la dolcemente tribale “It Is Not Yet Time For The Percolator” dove i campioni di voci blues la fanno da padrone in un innocuo ma intrgante incedere.
Ho trovato molto gustosa anche la traccia “Spicy Peppercorn”, dall’ambientazione spaziale e con quel campione di flauto che solletica la ghiandola aulica, invitando a buttare giù rime sul ritmo marziale del groove.
Ce la ascoltiamo un’altra impronta dell’album? Ma sì, dai, mettiamo su “That’s How He Got Dead” con il suo inarrestabile procedere, con il campione di pianoforte che rende tutto più misterioso, un’ambiente intriso di suspance che porta a pensieri più filosofici e, forse, anche un po’ più paranoici.
Vi suggerisco, sempre che vi piaccia il genere di ascoltarvi questo bel disco come faccio io, ovvero accompagnandolo con un decotto di radici di zenzero e curcuma con l’aggiunta di aloe vera e succo di limone. Vi godrete un momento meno riflessivo del silenzio e assolutamente fuori dal caos mediatico di questi giorni. (Filippo Fenara)
Accidenti a me e a quando ho inaugurato la rubrica “audio bagliori”. Io sono molto geloso delle mie ricerche e scoperte nei fondali della scena musicale mondiale, va poi a finire che ne parlo, si sparge la voce, l’artista entra nel mainstream e diventa commerciale, rovinandosi. Ma è più forte di me, mi crogiolo nella condivisione di ciò che considero bello e questo vale per le poesie, la musica, l’arte in genere, la natura incontaminata (oramai una chimera) e i sentimenti altruisti. È per questo che oggi vi porto a galla l’ineffabile CommandantCouche-Tôt, impavido esploratore d’oceani acustici di sede a Berlino, che naviga sempre con la sua immancabile berretta rossa, a volte trovandosi sommerso da rifiuti di plastica, a volte, come in questo suo omonimo concept E.P., s’imbatte in avventure d’altri tempi. Musicalmente posizionato tra Spongebob e Debussy, le sue composizioni ricordano le colonne sonore francesi dei primi anni ’70 e sono una medicina per i vostri timpani importunati dalla musica da bottega e tiggì nefasti che ripetono ossessivamente la parola “locdaun” (così, tanto per prepararci alla sodomia massificata). Non posterò video tratti dalla tubatura ma vi racconterò per sommi capi questa emozionante avventura del Comandante collegandovi all’ascolto sulla spotiffa. Ovviamente il reblog su Instagram e Facebook non lascia questa possibilità, per cui vii suggerisco di visitare direttamente http://www.lemiecose.net. C’era una volta…
“Le Chevalier Du Zodiac” – Le Commandant naviga in alto mare alla ricerca di un’isola che dicono sia abitata da giganti…
“L’ile Mysteriéuse” – All’orizzonte finalmente appare un isola che ospita gigantesche sculture di pietra, cosa potrebbero essere?
“Bise Mort Gun” – catturato dai Rapa Nui, gli indigeni dell’isola, Le Commandant sta per essere condannato a morte dalla sacerdotessa in un rito che si celebra nella notte di luna piena.
“S.O.S.” – Legato ed esausto, Le Commandant riesce comunque ad inviare un segnale di soccorso spiegandosi con la sacerdotessa.
“La Venus de 1000 Hommes” – La sacerdotessa viene rassicurata dalle vere intenzioni del Comandante e si concede a lui in un campo Moai…
“Le Chant Des Sirènes” – Le Commandant ode un canto di sirene al quale nessun mortale riesce a resistere, è così costretto a lasciare l’isola e rimettersi in mare pronto per nuove esilaranti avventure…
Spero che la qualità della musica che avete appena ascoltato sia come il canto delle sirene di questa storia per cui non possiate resistere e vi ributtiate nella mischia pronti a tutto. (Filippo Fenara)
Io vi faccio scoprire un musicista ma ve lo sussurro sottovoce nell’orecchio, mi giurate di non dirlo a nessuno? Si chiama Reinier Thijs, in arte Thijsenterprise è di provenienza olandese ma ora vive a Barcellona. È un sassofonista bravissimo nell’improvvisazione, inoltre è compositore e beatmaker, ovvero si produce da solo digitalmente i carpets sui quali poi disegna traiettorie solistiche con il suo sax con un risultato eclatante. Ssssssh, non facciamoci sentire, questa è una perla sotterranea, è meglio che i mercanti non ne vengano a conoscenza…
In attesa del suo nuovo album, ascoltiamoci qualcosa di “Snits” l’E.P. sempre del 2020 che ha fatto drizzare le orecchie a molti appassionati della new wave jazz, cominciamo proprio dalla traccia 1, dal titolo “Tribute To The Duke (Nukem)“. Purtroppo devo informarvi che sulla tubatura non sono per ora presenti nè video nè audio, quindi bisogna munirsi della spotiffa. L’E.P. prosegue con la bossa di “Another Digital Handshake” e la travolgente base hip hop di “Living a Hell Of a Life”. Dopo si succedono lo skit “Slippery Flip Flops”, la free jazz “Skeer Is Meer” e un’altro skit dal titolo “Shaping Forces In Music”. Andiamo invece ad ascoltare le ultime due impronte del disco, la prima “Do Nothing Without Intention” è un minutello molto New York, la seconda è invece il brano più lungo e musicalmente complesso dell’E.P. (con un tributo enorme ai Tribe Called Quest nel campione di basso) e prende il titolo di “Tribute To Dj W“.
Dopo questi 18 e sblisga godevolissimi minuti di “Snits”, non ci resta che aspettare il 27 Novembre, data di rilascio di “Lahringen” primo vero e proprio album dell’artista olandese che promette di deliziarci i timpani con la sua alchemica miscela di hip hop e jazz. (Filippo Fenara)
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