Eclettica: chi, nell’arte o nella scienza, non segue un determinato sistema o indirizzo, ma sceglie e armonizza i principi che ritiene migliori di sistemi e indirizzi diversi. (Fonte: vocabolario Treccani).
Empatia: in psicologia, in generale, la capacità di comprendere lo stato d’animo e la situazione emotiva di un’altra persona, in modo immediato, prevalentemente senza ricorso alla comunicazione verbale. (Fonte: vocabolario Treccani)
Elegante: che ha insieme grazia e semplicità, rivelando cura e buon gusto senza affettazione o eccessiva ricercatezza, detto degli atti, del comportamento o della persona (Fonte: vocabolario Treccani)
Eccentrica: che è fuori del centro, che non ha il medesimo centro; si dice in particolare di due cerchi contenuti l’uno nell’altro, ma con centri diversi. (Fonte: vocabolario Treccani)
Emma: ferace fondo d’oscurità che, seminato di versi, germoglia in bagliori di luce. (Fonte: Filippo Fenara @lemiecosepuntonet)
Oltre a rappresentare una faretra piena di frecce lessicali estrovertenti, questa poesia di @phoenisia è anche emblematica della partecipazione di questa eclettica scrittrice nell’ambito del @circolodellepoetesse, profilo Instagram che raggruppa tanti femminei talenti del mondo onirico che si sostengono a vicenda per una crescita collettiva. Sebbene abbiano respinto la mia richiesta di adesione, non posso che avere buone parole per questo nuovo team che seguirò con interesse e curiosa passione, cercando, quando possibile, di avvalorarne la coesione, la comunione d’intenti e il senso di comunità che esala essenze dialettiche a difesa di uno status che amo e rispetto: quello di essere Donna. Solo la classe urbana di Veronica Annunziata poteva sviscerare i complicati ed immaginifici tratti di questo status in termini che ho trovato meravigliosamente civici, tropicali, amazzoni, fieri, che si spengono – o forse si alimentano – in una chiusa, a mio parere, dolcemente provocatoria, ovvero “Aiutami a pensarmi libera” quando, nella steppa sterminata di questi versi, @phoenisia lo è già e nell’accezione più umana del lemma. (Filippo Fenara)
SONO ABBASTANZA DONNA
Sono abbastanza donna
da ballare sotto le cascate
del Niagara con 2 gocce
di Chanel N 5 ad ingioiellarmi
il collo e sfiderò tutti
i ghepardi della giungla
ad una gara di agilità
non essendo né gazzella, né leone
quando Sol alzerà il capo
io sarò atto di ribellione
con le stringhe slacciate
E la gomma da masticare in bocca
o più semplicemente bolla
di sapone in mezzo a tante
piante grasse
È Attraverso le scabrosità poco percorribili che si giunge all’essenzialità dell’immaginabile e dell’immaginazione- E se fossi un’autoimmagine inconscia e scatenata in una domenica in cui la pioggia riga gli zigomi dei vetri? Aiutami a pensarmi libera
Da un’oramai solida collaborazione tra Luisa Cataldi e PMR nasce questo binomio di prosa e poesia che comincia ad affacciarsi sull’anno nuovo. Rimaniamo in tema con la precedente elegia di Ilaria, qui però si narra, prima in prosa poi con in versi, di sotterfugi messi in atto da un “uomo cacciatore” per “incatenare” la propria donna impendendole le “innocenti evasioni” da una vita inappagante, inganni e trappole che cagionano in lei un male insostenibile, una prigionia il cui solo scopo è un cinico divertimento, quello appunto di ogni cacciatore. La parte in prosa di Luisa Cataldi è ovviamente e decisamente meno criptica, PMR si distingue sempre per la propria verticalità compositiva, dando forma ad un poema di versi composti quasi esclusivamente da due lemmi, leggendolo sdraiati con il telefono sul petto, sembrerà di essere trafitti da una spada nel cuore ad esempio della sofferenza che colpisce la “donna preda”. Buona lettura.
Conosco poco PMR, ma la coincidenza che ci ha fatti “incontrare” virtualmente attraverso lo scritto in tre parti di @cataldi_luisa “La Domanda” (“Risorgiva” è ispirata dall’epilogo pubblicato alle 21 di questa sera), mi dà la parvenza di essere un positivo segno del destino. Avete presente le fontane Zen? Ecco, la struttura, la metrica e le parole modellate da PMR mi richiamano alla mente proprio uno di questi antistress giapponesi: a partire dal primo verso, il significato e il filo conduttore della lirica si rimandano sempre a quello successivo, come acqua che sfugge attraverso cascatelle a catena fino ad arrivare al termine chiave finale “risorgiva” (ecco perchè ho intitolato questo componimento così NDR). Se ripercorriamo il racconto di Luisa Cataldi e, soprattutto, ne leggiamo la parte finale, allora capiremo appunto il senso di “sfuggevolezza” di una risposta che consiste nel non esserci, immagine proiettata a dovere e con grande intuito creativo da PMR che, proprio con la parola che termina la poesia, sembra voler indicare il continuo scorrere della vita come effettiva replica alla domanda posta dal protagonista del racconto. Mi è piaciuta molto PMR e, se e quando lei vorrà, sarà di nuovo gradita ospite delle carte carbone di LeMieCose. (Filippo Fenara)
Allora: dopo “Buongiorno!“, “Mordo Il Tempo” e “viVersi“, se è vero che tre indizi fanno una prova, con questa quarta carta carbone di “Tor(Menti)” di Eli, posso asserire tranquillamente di essere davanti ad un vulcano creativo che erutta lapilli lirici incandescenti con una prolificità invidiabile. Il grande dono di questa scrittrice è l’essere sempre diretta nell’esposizione dei contenuti e il suo personale range di argomenti trattati sembra essere sconfinato. La prima lettura di Tor(Menti) è stata un vero e proprio colpo di fulmine, con i suoi colori vivaci, con la sua verve, con l’utilizzo di onomatopee, mi ha rievocato il mondo dei fumetti degli anni ’60, questo testo ha una musicalità eccezionale, richiama il twist, le canzoni più allegre della prima Mina, le parole semplici degli autori di un tempo e la spensieratezza di un’epoca serena dove tutti i sogni sembravano a portata di mano. C’è da dire che l’oggetto al centro della lirica di Eli – un uomo / ragazzo che l’abbandona e un successivo incidente stradale – è stato architettato con una fantasia positiva notevole, fino a diventare un fuoco d’artificio che esplode in milioni di scintille ogni volta che lo si legge e questo fa onore a Eli, che ha saputo “addobbare a festa” un fatto che sembrava precludere toni laconicamente mesti. (Filippo Fenara)
Prima di esprimere un pensiero su quest’ennesima gemma di Francesca De Masi, è giusto che chiarisca ai lettori il “palinsesto” di questa collaborazione tra la succitata poetessa, la già conosciuta ed apprezzata scrittrice @cataldi_luisa e la (ancora per poco) inedita – sulle carte carbone – @ipensierinparole. Riassumendo, Luisa Cataldi ha scritto un racconto, “La Domanda” in tre parti, Francesca De Masi ha scritto questa poesia ispirata alla prima parte e PMR ne ha vergata un’altra a braccetto con l’epilogo che cartacarbonerò Domenica prossima alle 22:30. Le tre puntate di “La Domanda” saranno invece ripubblicate su LeMieCose Domani, Sabato e Domenica alle ore 21.
Che dire di questa poesia di Francesca De Masi? Beh, l’immagine che la mia mente ha edificato su questi versi eleganti, femminili e felini, è quello di una lunga e solida scalinata lungo la quale scende dalle cime dell’intelletto, con passo sicuro e simultaneamente sinuoso e leggero, un contenuto determinato e impreziosito da termini pertinenti e colti come “palliative”, “aleggiano” e “stolidamente”, il tutto permeato da una magnificenza e imperiosità che quasi sembrano intimare il lettore a non contraddire l’oggettività del senso voluto della poesia. Ho scelto questi versi di Francesca perchè, a confronto delle precedenti “carte carbone” dedicate alle sue tracce, questo componimento è assolutamente più “mentale”, è un’assioma, un algoritmo, un ideogramma con il quale l’autrice mostra la propria fluida e fiera capacità cognitiva ed espressiva. In questo caso, veramente, l’anima di @inosservatapasso cede il posto alla logica, simbolizzata da un vocabolario ricco e sfruttato con sapienza, il paradosso di descrivere una domanda che il protagonista fa a sè stesso, con una risposta certa, decisa e forte. Opinabile, sicuramente, ma non starei a dirlo a Francesca… (Filippo Fenara)
Maia. Maia e le sue concise incisioni. Poche parole con un potere non solo semiotico ma anche semantico, bordate aforistiche che s’infilano sotto l’incrocio delle spiazziate volontà dei lettori, aggiornamenti automatici del subconscio, firmwares subliminali, icone che racchiudono universi di contenuto, sinossi estreme, dardi. Un po’ di tempo fa ho letto questa “La Bemolle” – anche il titolo tracima simbolismo – ma, non avendo mai amato le poesie eccessivamente brevi, ho appioppato il comunque meritato like e ho proseguito la mia passeggiata sulla timeline di Instagram. Niente da fare, la mia CPU era ormai stata contagiata e continuamente pensavo a questo “concerto”, al “coltello di Grossman”, all’inedito “frugare oltre la serotonina” fino alla sentenza definitiva “ed amarmi davvero di tenera folllia”, forse il verso più trasparente ma con un gusto vintage anni ’60 che lascia rintronati dalla sua energia onirica. Voglio essere sintetico anche io, tengo solo a precisare per i lettori di LeMieCose, che il romanzo di David Grossman “Che Tu Sia Per Me Il Coltello” è la fantastica e a tratti delirante cronaca epistolare tra due amanti, vi suggerisco di metterlo tra i regali sotto l’albero, in attesa di poter fare dono, magari nel Natale del prossimo anno, d’una silloge di Maia. (Filippo Fenara)
Debutta tra le smussate sgrinfie delle carte carbone LeeLoo, autrice italiana di stanza a Londra, incrociata tra i dedali caleidoscopici di Instagram. Tra le sue composizioni, ho scelto questa “Ho rubato il tempo” perchè, nella sua disincantata stesura, rende molto in accessibilità ed è cronaca di una riflessione autocritica “a guardia abbassata” di una donna che rilegge il proprio “essere stata” e, in quel preciso istante, “essere ancora”. In un mondo capitalista che spinge e manipola le menti perchè mettano l’apparenza in primo piano, è quasi scontato che, maturando, ci si scontri dolorosamente con la propria interiorità lasciata alla deriva nell’oceano di informazioni e influenze malevole. Il primo verso è emblematico “Ho rubato il tempo a me stessa”, è una presa di coscienza falcidiante, sofferta, ma con il grande potere di invertire una rotta che si ritiene sbagliata, un cammino che non verte più alla cima del mondo ma alla profondità del senso del vivere; quegli “occhi affranti dinanzi alla vita non goduta” racchiudono la demoralizzazione per essersi – inconsapevolmente – lasciati andare all’effimero, alla superficie, al superfluo, come ribadito con vigore nella chiusa “…è il mio essere che non apprezzo e senza prezzo lo dono in pasto a bocche affamate”. Se è vero da un lato sia un peccato lasciarsi andare, è altrettanto feroce concretare che la quasi totalità degli esseri umani vede nel prossimo un’occasione da sfruttare, una risorsa a cui attingere indebitamente fino a renderla esangue, un bene di consumo. Ma LeeLoo, lo capiremo attraverso le prossime carte carbone che, con il suo permesso, le dedicherò prossimamente, attraverso lo scrivere, la poesia, la bellezza dell’arte ha trovato la strada da seguire dopo questo “breakdown”, invece di fare, come tanti, il decadente percorso di allinearsi al peggio. (Filippo Fenara)
A breve distanza dalla carta carbone della sua introspettiva “Mosaici” torno a scrivere di Luna: nelle tre precedenti e soggettivamente opinabili mie recensioni che riguardano i suoi lavori, abbiamo visto la scrittrice guardarsi, ispezionarsi, scannerizzarsi, spesso in maniera anche severa, quasi cinica nel nergarsi il perdono. Ho colto l’occasione di questa “Colline” perchè, a differenza dalle altre composizioni, Luna estroverte il suo sguardo verso un tramonto dietro le colline e ne colora gli spazi con un’impeccabile facciata di immagini immanenti, parole lussureggianti e aggettivi che ne attenuano le tonalità, ma. Ma anche in questo solitamente languido tramonto troviamo un contenuto gelidamente sprezzante della poetessa in alcuni versi come “tra fatiscenza e coraggio”, “dilaniare il contrasto” e “Su dorsi di rame sarò spietata”. La personalità di Luna si diluisce nella descrizione dell’arcobaleno come un filtro in bianco e nero, la sua interiorità non può fare a meno di traspondersi anche in immagini retoricamente e comunemente dalla valenza positiva e romantica, trasformandole in uno scontro con i dilemmi del suo essere. È una bella poesia, al di là del competente utilizzo di termini originali e ridondanti, è bella perchè permette al lettore di sfogliare la complessità di una persona che persevera nel sollevare dubbi, forse l’unica – anche se faticosa – strada per evolversi. (Filippo Fenara)
Cari amici, nel nevoso 3 Dicembre 2020, dopo aver letto questa colata da fonderia lirica, probabilmente uscirete in strada in canotta, braghe corte e snicche (bucate dall’usura) e non sentirete freddo. Ora Eli, io e alcuni miei lettori abbiamo un’età, non mi sembra corretto minare la nostra già inceppata funzionalità cardiaca con queste disivolte stilettate provocanti, non ci vorrai mica avere sulla coscienza vero? Pensi che reagiscano tutti con un’azzimata (grazie Cristina per avermi ripristinato il termine) indifferenza leggendo le scie di fuoco che lasciano parole come “le mie corde tese insaziabili di mani usurpatrici” oppure, come faccio in questo momento, diano craniate compulsive e metronomiche contro lo spigolo del comodino? Non credi che a qualcuno venga il bizzarro ma comprensibile desiderio di accarezzare la morbida asperità di quelle “gravose cicatrici” che “adornano sensibili pretese di eterno giuramento”, non immagini che un ancestrale rigurgito vitelloniano ci colpisca nelle nostre lasse carni quando ci immaginiamo destinatari di questi dardi infuocati? Dovresti sapere benissimo, Eli, che anche noi uomini in età pre-cantiere, da giovani eravamo mossi da un istintivo e selvatico “vagar funambolo”, ma soprattutto Eli…ti sei resa conto di aver scritto le esatte parole delle quali ogni uomo dagli 0 ai 100 anni (dopo è più un discorso vegetale) vorrebbe essere il riferimento? E ti chiediamo scusa se “al cuore fa male” ora ce lo hai fatto provare anche a noi ed è così vero. Prima del ricovero in un centro di salute mentale e cardiologica, andatevi a rileggere le altre “Buongiorno!” e “Mordo Il Tempo” di Eli, perchè Lei può essere veleno ed antidoto allo stesso tempo. (Filippo Fenara)
Bentornata timida Luna. Che detta così sembra il titolo di uno swing degli anni ’50 di Nicola Arigliano. Dopo le apprezzate carte carbone di “Essermi” e “Estranea a Me Stessa“, continua l’introspezione dettagliata di questa giovane autrice che, in questa “Mosaici” ostenta distacco verso sè stessa per celare la pungente preoccupazione di non essere stata all’altezza di ciò che si era ripromessa, dipingendo un fermo immagine della sua anima sensibile, in quel preciso momento di tentennamento. Io obbietto. Obbietto con ferma convinzione che una persona capace di partorire versi illuminati ed illuminanti come “spezzare il declino”, “illudere la curva, tirandola…”, “mi scindo in ammassi di me” e, soprattutto “mosaici di cui nessuno osa il tutto” non sia stata all’altezza delle proprie aspettative: il percorso labirintico in cui rimane intrappolata la logica di Luna in questo autoscatto in bianco e nero è costituito dallo sgorgare immagini astratte dalla sua infinita anima e rileggersi secondo gli schemi di pensiero della mente che, per loro natura, hanno dei limiti ben precisi. Quindi quei soavemente timidi versi finali “Volevo solo sorgere in vicoli nuovi / mosaici di cui nessuno osa il tutto” sono l’esatta cronaca di ciò che invece sta effettivamente succedendo in contemporanea: Luna, scrivendo, calca i “vicoli nuovi” della sua interiorità sconfinata, ed è “infinitesimo infinito” (Cit. Lyth Karu) che si fonde in un tutto quantico, perchè la poesia è un’interpretazione del tutto, perchè l’arte, come minimo, è tutto. Concludo trovando la definizione di “psicoflusso” per lo stile singolare di questa autrice avanguardista e m’accoccolo sul divano ad ascoltare “Blue Moon” del buon Nicola Arigliano. (Filippo Fenara)
Non mi è mai capitato di trovare per strada una valigetta contenente 10 milioni di euro (tanto, per come sono fatto, l’avrei restituita al legittimo proprietario…), però posso dire di aver scovato la luce accecante che filtra tra il pensiero e lo scritto in questa “28 Luglio, St. Cloud” di Marta. Non so quasi nulla di questa scrittrice illuminata, sul profilo (linkato sopra) ci sono solo quattro o cinque (notevoli) poesie, ma questa mi ha veramente lasciato esterefatto per la limpidezza immaginifica, per la narrazione disinvolta dai toni urbani, per l’incidenza sull’anima che hanno alcuni versi come “siamo lavabi traboccanti di acido” oppure “nelle notti estive è sempre bello commettere qualche sbaglio”; forse è ingiusto citare solo alcuni tratti di questa poesia, in quanto il suo bello sta nell’intensità tensiva inscindibile, nella dimestichezza narrativa, nella congruenza con le dinamiche del vivere e, infine, nella dissetante fruibilità del lessico utilizzato. Spero di poter conoscere più a fondo l’opera di Marta perchè, sperando non sia un una tantum, mi ha veramente impressionato. (Filippo Fenara)