Già cominciare con “calcarea gronda la lacrima” mi sembra un ottimo inizio. Questa poesia di Valentina aka @vm_leeloo tratta di disgregazione e lo fa in maniera astratta, come dimostrano gli “esiziali unguenti vitrei” quindi, stiamo assistendo ad una mutazione della tecnica della poetessa con sede a Londra, mentre la ricordavamo autoriflessiva, passionale e verace, ora sembra essere più estrovertita, più interessata ad un mondo fuori dal sè che le appartiene nel suo essere meditativo e cognitivo. A quanto pare, Valentina, ha superato ampiamente quel fuoco di sofferenza che l’ha accompagnata finora rivolgendo il proprio sguardo al mondo esteriore, alle dinamiche dell’amore e dell’anima, insomma, avanzando in divenire. Vi lascio alla lettura di questa splendida e “spaziale” poesia augurandovi di stare sempre in luce. (Filippo Fenara)
Di nuovo abbiamo Francesco Minichini aka @jodelaki a deliziarci con una sua poesia, questa volta più autoriflessiva meno arrembante, più “filosofica”. In questi versi si rivela con “due sogni incastonati nel petto” che sembrano voler indicare l’odio e l’amore, la guerra interiore e la serenità, il bianco ed il nero del tao. La sua tecnica rimane la stessa ritmata delle altre elegie di suo pugno e sebbene “stoppi le rime” si sente facilmente un groove che accompagna la poesia fino alla fine, una sorta di musica silenziosa che la metrica segna con indubbia incisività. Un’altra bella prova di @jodelaki che con il suo incedere travolgente riesce sempre a stupire e a lasciare il lettore senza fiato. Statemi in luce. (Filippo Fenara)
“Poesia psichedelica” l’autodefinisce Simona Angiulli e, non appena ho letto lo scritto che segue, me ne sono innamorato a prima vista: ho quindi acquistato il suo libro “C’ho Fiori Per La Testa” del quale vi racconterò prossimamente, ed effettivamente trovo il suo modo di scrivere desueto, originale, beat. Fa piacere ogni tanto leggere poesie che non trattano per forza il tema dell’amore ma di un buon gelato, sicuramente una lettura rinfrescante e piacevole, in questo caso si può affermare che è proprio “una questione di gusti”. Gioca proprio sui gusti Simona Angiulli, neo membra del @circolodellepoetesse, in un variegare la poesia di baci e wafer, con una divertente dissertazione tra i romanticismo e gelato, che si conclude in maniera divertente e ironica. Vi consiglio di leggere questi versi, fuori dai canoni e liricamente interessanti, sicuro che l’autrice riuscirà a strappare un sorriso anche a voi. Ovviamente il passo successivo è comperare “C’ho Fiori Per La Testa” che vi lascio linkato in calce. Statemi In Luce. (Filippo Fenara)
GELATI
Non me ne frega un accidente di leggere quelle poesie d’amore non corrisposto, di quell’amore agognato sperato, sognato che fa vagare con l’anima sanguinante. Preferisco leggere le poesie sui gelati, quelle sui gelati alla fragola, no che non mi piacciono i gusti alla frutta. I miei gusti preferiti sono nocciola e cioccolato oppure nocciola e mandorla e pistacchio col cono wafer. Quindi semmai qualcuno dovesse scrivere una poesia sul gelato alla fragola non leggerei nemmeno quella. Scrivete piuttosto di Eleonora e Tommaso che insieme leccano da un unico cono. Romantici seduti alla panchina in cemento bianco pietra di fronte allo stagno con le paperelle di gomma. Leccano insieme finché la nocciola e il cioccolato finiscono e le lingue si sfiorano e si baciano. Lo scopo di mangiare da un unico gelato è senza dubbio quello di baciarsi. Senza dubbio per Tommaso, Eleonora invece non ne aveva l’intenzione. -Ma che fai? – -Ti bacio- -Io, però, non voglio- -E quindi? – -Grazie per il gelato- -E basta? – -La prossima volta prendilo nocciola, mandorla e pistacchio-.😁
L’autore che vi ho presentato finora come “Lo Scribacchino” ha deciso di rivelare il suo nome, Antonio e scegliere uno pseudonimo per il profilo Instagram meno inflazionato come @un_incanto. Il superbo stile, fortunatamente, è rimasto quello che ce lo ha fatto apprezzare fino a questo momento, quel sapore di sottile intuito, lampi di sensibilità estemporanea e un’esposizione d’architettura letteraria fuori dal comune. In questo suo ennesimo, encomiabile, dipinto cubista, si apre in un’avvolgente delucidazione sul potere delle parole senza mai far calare la tensione lirica dello scritto, una cucchiaiata di composta di fragole e aceto balsamico (se non l’avete mai assaggiata ve la consiglio con un pecorino di media stagionatura e un calice di montepulciano d’abruzzo), dolce e asprigna allo stesso tempo, con un finale acido ed affilato come le parole che, a volte si pronunciano. Antonio è uno scrittore da seguire, difficilmente sbaglia anche solo una virgola dei suoi componimenti, sempre generosi in quanto a pacata fruibilità. Statemi in luce. (Filippo Fenara)
Ho aspettato talmente tanto la donna giusta che, quando l’ho finalmente incontrata, era quella sbagliata. Chissà…forse è capitato lo stesso a Francesca De Masi, viste le parole agre che ha riversato in questi byte disillusi e non troppo larvatamente avviliti. Se così fosse, potrei rimproverarla dispettosamente per non aver ceduto all’ode “Francesca” che amorevolmente le dedicai, avendo invece perseguito altre strade che non fossero il mio impervio ed accidentato sentiero: poi sento la sua voce che recita “Quanto Costa L’amore” e mi sciolgo come un cioccolatino sul cruscotto della macchina esposta al sole ferragostiano, perchè ci sento in fondo tanta dolce ed innocente espressività, perchè il lontano accento campano che ancora conserva me la fa immaginare bambina che ha perso un giocattolo, fiorellino cresciuto in una piccola crepa nella mezzadria dell’autostrada, cucciolo abbandonato. La cosa che mi è sempre riuscita bene con le donne è idealizzarle, ma con @inosservatapasso non credo di essere andato così lontano dalla realtà. Al fine cartacarbonaro vi riporto il commento che ho scritto di getto sul suo profilo, sotto il post riportante questa passionale poesia: “Francesca, che dirti, mi hai gettato in uno stato d’afasia stendhaliana. La semplicità beverina di questi versi adiacenti al cuore sono un apice della tua espressività. La disillusa dignità che ne traspare è una composta d’arance amare che inebria le papille sensitive di sapori contrastanti. Complimenti anche a @silviaminime per aver disciplinato il tuo impetuoso flusso con maestria. Non m’importa se fai un reel, t’adoro quando stai real”. Statemi in luce. (Filippo Fenara)
Non sono un amante delle “ricorrenze a comando” ma, scorrendo tanti scritti ispirati dall’otto Marzo, mi è conseguita una riflessione intima e spontanea sulle donne. A parte i luoghi comuni e le frasi fatte, io riesco a capire molto bene le psicologie e i flussi emotivi del gentil sesso ed è proprio questa consapevolezza che m’incentiva, non tanto ad amarle, quanto a farmi d’amore per loro. Parafrasando Oscar Wilde potrei dissentire il suo celeberrimo aforisma proponendo un mio personale “le donne vanno capite e proprio per questo amate”, perchè lo stato di grazia dell’innamoramento è risorgiva generosa di fresco stupore che trovo sacrosanto condividere con tutti gli altri esseri viventi senza discriminazione alcuna, altrimenti non sarebbe degno del nome che porta. Avevo domandato a Runa di poter riproporre questa sua suggestiva ed ardente lirica alla fine di Febbraio ma, per motivi tecnologici o di coincidenze cosmiche che non ci è concesso conoscere, ho ricevuto il suo gradito assenso proprio…l’otto Marzo. Un segno di sincronismi superiori mi verrebbe da dire, considerata la calda femminilità di questi versi d’intreccio d’anime e di corpi, l’affilata sensualità di un erotismo che non offende ma ristora, la snellezza naturale con cui le parole di “Ancora Una Volta [La Luce]” si dispiegano sotto occhi in trend di languore, istantanee che si protraggono audacemente molto oltre i confini della mera materialità. C’è tanto amore in questa poesia e m’ha incendiato il cuore questa rilevante peculiarità, le critiche letterarie le cedo a chi, a differenza mia, possiede la freddezza per non lasciarsi risucchiare nei vorticosi mulinelli letterari di disinibito e travolgente sentimento che siete in procinto di leggere. (Filippo Fenara)
ANCORA UNA VOLTA [LA LUCE]
ancora una volta la luce. ancora una volta a lasciare tracce d’argilla sul mio corpo interrotto sono i morsi della tua fame, sete a rivitalizzare la pelle, a scuotere i reni dalla corteccia di desiderio nell’inevitabile segmento del dono dell’unione. è la memoria che all’alba si modella come un pozzo di tenebra a riavvolgere le tue mani, le tue dita in un arpeggio di desiderio infinito.
[e resto in bilico nel mentre divento pane per la tua bocca, poi sale, frutto di sangue, artiglio intorpidito che lascia un graffio errante]
ancora una volta è la luce a darmi sollievo, a inzupparmi di respiro, a sfibrarmi di peso, ad invadermi come un fiume di mendicante piena, incauto, interrotto solo dal sospiro che avverto tagliente sul petto come un battito clandestino, un grido di famelico oblio.
Mantenendo una previa promessa da persona leale e corretta, Francesco Minichini ha devoluto questa sua beatmica scesa per la premiere esclusiva delle Carte Carbone su LeMie Cose: ora mi ritrovo tra le mani una delle composizioni di slam poetry migliori degli ultimi tempi, con una surreale ed elegante bizzarria pindarica che incastra barre assonanti, rime a cadenza ossessiva, immagini “gonzo” alla Hunter S. Thompson coordinate ad un ritmo ancestrale e lipido che rimane impresso nell’ipofisi per le 4/5 ore successive alla lettura del flusso di “Per Giove!”. @jodelaki eccelle in queste tecniche contemporanee di creatività letteraria, già ampiamente e da tempo affermatesi negli Stati Uniti dove, Covid permettendo, molti locali organizzano competizioni o serate a “microfono aperto” nelle quale qualsiasi persona del pubblico può salire sul palco e cantare, rappare, recitare poesie, sopra un accompagnamento musicale e una sola, fondamentale regola: tutto deve essere fermamente improvvisato. Nelle barre di Francesco è evidente questa scrittura disinibita bypassando il ragionamento e lasciando fiottare la propria impulsività compositiva, cernendo campioni della quotidianità e creando collages estemporanei di arte moderna. Mi sono permesso di accostare a questo flusso una strumentale che sarebbe meglio faceste partire prima della discesa libera. Grazie Francesco Minichini, questa è la strada giusta nella direzione giusta. Statemi in luce. (Filippo Fenara)
PER GIOVE!
Trovo ingiusto il mio dinoccolare maldestro sopra giunture di compensato, gessato è il complesso indossato e mai stirato, punzecchia col bastone e vedi se sono ancora vivo. Per Giove! Ma dove l’avrò messe le mie prove schiaccianti? Avevo un delitto imperfetto e ne ho fatto un capolavoro sorride il mio ossimoro e catarifrangentemente “muoro” seppur una lama trapassase la lingua, non sentirei dolore si osservi che in fondo qualunque tepore messo in covo si fa contrario al dolce stil novo inverto la rotta Bologna-Firenze pochi fronzoli che fanno di me un precisissimo ghirigoro.
Ettore Massarese, attraverso le sue molteplici capacità artistiche, riesce ad incarnare la natura nella sua completezza, è capace di travestirsi da mare calmo, da vetta inaccessibile e sublime, può ruggire come un leone ed amare disinteressatamente con la fedeltà di un cane. Spero mi si perdoni il gioco di parole che ha scaturito in me questo sarcastico manifesto sull’attualità nel Belpaese, ma in “Troppo Comica” il poeta diventa aquila reale: dall’alto del suo volo riesce a dare una visione d’insieme ineccepibile di ciò che è, appunto, “reale” e non manipolato dai media e dagli interessi confusionari che stanno trasformando l’Italia in un garbuglio grottesco da un lato ed altrettanto cinico e tragico dall’altro. Il testo che andrete a leggere a breve è una chirurgica e trasparente disamina della cancrena patologica in cui versa la nazione in cui viviamo, destinata al crollo a causa dell’erosione sistematica delle fondamenta di valori e cultura che si protrae da almeno 40 anni a questa parte. Elegante lo stile, distaccato ma attento lo sguardo sul paese, necessario il dissociarsi dal ludibrio esiziale in corso, pur schierandosi dalla parte di tutte quelle sanguinanti “mani tese”. Non mi resta che augurare una buona lettura a coloro che preferiscono una cruda verità ad una piacevole menzogna. (Filippo Fenara)
Io, sebbene lungo il mio percorso scolastico sia stato un discreto somaro, mi ritengo, senza piaggerie e sviolinate, un attento alunno di alcuni autori che ho eletto “a pelle” come fari nel mare in tempesta della letteratura contemporanea. Tra questi c’è sicuramente Carlo Becattini del quale, oltre a non avere le competenze necessarie per dibatterne la tecnica sopraffina, ho incamerato attraverso il tempo l’etica umana e l’umiltà della quale mancavano i professori e maestri che avrebbero dovuto “educarmi” alla bellezza. Non credo sia un segreto che, dopo un paio d’ingenue partecipazioni ormai anni fa, ho capito che la competizione scrittoria dei contests e dei concorsi è una grottesca scimmiottatura della dignità contenutistica degli autori a scopo di lucro, non nascondo nemmeno di aver visto sempre nell’autoproduzione (dopo aver sofferto cocenti delusioni in ambito musicale) e nella disintermediazione editoriale il mezzo di profusione più genuino di saggi, libri, album musicali e opere artistiche in genere. Questo proemio per dimostrare la mia estrema gratificazione nell’incontrare affinità di pensiero in questo testo di Carlo Becattini che, con categorica lucidità, già nel 2019 denunciava con un’elegante ma perentoria invettiva quello che ad oggi è diventato il mostruoso mercimonio artistico virtuale, incoraggiato dalla modalità speculativa degli algoritmi avidi dei social e perseguito da arrivisti senza scrupoli scevri di talento alcuno. Lo scritto di denuncia, l’invettiva, il “dissing”, benchè siano stati estromessi dal glitterato contesto del “poeticamente corretto”, hanno assolutamente ragione d’esistere e considerarli come un gesto di supponenza ed immodestia significherebbe soffermarsi a guardare il dito e non la luna. La verità fa male solo a chi vive di finzione. (Filippo Fenara)
POETASTRI
Il poeta fine a se stesso insegue la gloria dietro i concorsi, sceglie con cura le sue parole anche se son morte da tempo ormai, solo tra simili riescono a comprendersi, una parte fa la giuria, l’altra i concorsi, infine l’editoria tutti benedice per l’eterno portafoglio che colmo rimarrà per generazioni.
Il poeta fine a se stesso è solamente un tecnico che assembla e cuce con maestria parole forbite su strutture calcolate edificate sulla storia mentre l’anima sta a guardare.
PMR e Luisa Cataldi sono grandi amiche e spessissimo è facile trovarle giunte in collaborazioni letterarie su Instagram, la loro “amalgama d’anime” è garantita da una complicità che le fonde come due spirali speculari: una che si scaglia nel profondo del senso, alla ricerca del fulcro di passioni e sentimenti sanguigni, genuini, autentici, l’altra che invece ascende verso l’etereizzazione del piacere in vette di intonse emozioni generate da una venerazione per l’innocenza come energia originante. Sono un po’ i poli opposti che si attraggono completandosi in un incastro artistico del quale è gratificante saggiare la lineare continuità: le due composizioni che seguono andrebbero fruite assieme tutte d’un fiato per provare l’adrenalina di un salto con l’elastico nello spazio onirico, prima in una vertiginosa discesa, poi nella conseguente ed euforizzante risalita. Il paradosso è che entrambe stanno esponendo il senso unico dell’estasi e riescono a portarlo a compimento solo grazie alla loro coesione empatica sancita da opposti che arrivano a toccarsi nelle loro estremità. Separare queste due piccole lucoree perle sarebbe acquistare una Lamborghini senza ruote ed è proprio per questo appagante senso di completezza che ospito volentieri sulle Carte Carbone la suite “Estasi” di PMR e Luisa Cataldi. Statemi in luce. (Filippo Fenara)
La timbrica serica di Leslie Odom Jr. sopra la morbida moquette di sensibile ed implacabile fluttuare spirituale della percettiva Ilaria che, con pacata determinazione, decreta regole, geometrie ed ipotetici scenari conseguenti a questa fase di “stallo”, micro e macro ciclica. La sua “decadenza” rappresenta in realtà una rincorsa, il cane della pistola che si ritrae nella premessa di un proiettile che esploderà squarciando la tenebra di un ordinario e bioritmico calo esistenziale, la miccia per la deflagrazione di un pronto riscatto, individuale, collettivo, vivente, cosmico. Nelle fotografie di Ilaria mi ha colpito particolarmente l’imponderabile profondità dei suoi occhi nocciola, vi ho percepito una sorta di trance in bilico tra l’ora e il domani, probabilmente la caratteristica accentuata che le permette di fare da “ariete” sulle porte dell’ignoto, celando dietro versi leggeri ed eterei la sostanza concreta catalizzata da sensazioni subconscie comuni. Ci sarà il ribaltamento, il colpo di coda, la reazione, per Ilaria e per tutti coloro che coveranno volontà di pace in una nuova luminosa era e che ora stanno dissotterrando i propri ordigni cardiaci pronti a sfoderarli nel momento della battaglia che sancirà il soccombere definitivo dell’oscurità e dei suoi servitori. Non è una semplice filastrocca da social, è il proclama di una veggente ai quali sono stati tolti i sigilli. Tutto è pronto. Statemi in luce. (Filippo Fenara)
La poesia di Pat è la formula esatta che definisce la correlazione quantistica altrimenti detta entanglement. Non me lo so spiegare esattamente, ma da quando la seguo (oramai almeno due anni) ha il potere di accordarmi l’anima su frequenze armoniche, mi rimette in placida sintonia con tutto ciò che è tangibile ed intangibile, riesce a coccolarmi all’interno di una sua infinitamente estesa aura di lieta intimità. Quando ho letto per la prima volta questa “Fosse Un Film”, credetemi o meno, avevo una tazza in mano dalla quale sorseggiavo una tisana e dalla soundbar collegata al PC uscivano le note del brano jazz che apre l’album di Stimulator Jones (recensito questa mattina alle 11:00). Quasi mai si riesce a dare un senso alle coincidenze senza rischiare d’impazzire, è come voler guardare il sole da vicino rimanendone accecati, le coincidenze vanno solo vissute come sintomi del destino che, per mia fortuna, ha cosparso il mio cammino dei petali poetici di Pat. (Filippo Fenara)
FOSSE UN FILM
Non c’è parola che renda l’idea del colore vibrante di certi tramonti profumati di té e gelsomino: una tazza tra le mani e un tocco di jazz. Fosse un film questo momento, mancherebbero i titoli di coda.
La poesia ha un fine. La poesia finta è la fine. I versi in grassetto di questa composizione postmoderna di Marianna Bindi sono di una temeraria attualità, l’esacerbazione della componente aulicida inscenata sui terreni sacri dello scrivere salvifico, la denuncia di una profanazione che, come per i sarcofagi egizi, porterà ad una maledizione inenarrabile. Questo “blocco” dell’elegia si staglia come un grattacielo tra villette di campagna stile liberty, creando una componente coreografica ossimorica, un distacco surreale insaporito da combinazioni di tasti, signore che “sbuffano vapore” sulla panchina di una stazione e un altoparlante che “incita all’ennesima stupida guerra”, retaggio della propaganda nazifascista prima e durante il secondo conflitto mondiale. Marianna Bindi ci porta sulle montagne russe del suo pensiero, dipingendo astratti scenari autarchici ed indipendenti ed allo stesso tempo paradossalmente simbiotici e partecipi di un contenuto lineare e logico. L’immagine di copertina è un interessante disegno, sempre dell’artista piemontese, nel quale mi sono ritrovato, smarrendomi tra i contorni accennati di un uomo solitario e sbalordito da una terribile saetta della quale presto avvertiremo inermi il fragoroso tuono. (Filippo Fenara)
RALLENTA IL TRENO MAGICO
E, piano piano, ogni vagone, si ferma alla stazione.
Sulle panchine stan sedute due signore sbuffando vapore infreddolite fino all’osso.
Hanno un fascino speziato dal gusto imprevedibile.
Ma emette un magnetismo gravitazionale insaziabile l’altoparlante che incita all’ennesima stupida guerra.
I poeti sono diventati dei perditempo, sfaccendati! Ubriachi di niente, viziati! Hanno perso il tatto e il contatto con la realtà! Che si diano alla prosa!
E le signore diventano in prosa travestite da alt + shift;
E con l’arte dell’ a capo, si fa subito carnevale.
Dopo la “terapia d’urto” di @phoenisia pubblicata alle 17 di questo pomeriggio, eccoci finalmente all’altro lato della medaglia di questa collaborazione vincente, ovvero Mattia Martignago aka @mattia_martignago, conosciuto proprio grazie a Veronica come brillante scrittore di racconti e poesie horror e noir, un genere che ho sempre, segretamente, adorato. Becchettando sul suo profilo Instagram, ho avuto il piacere di leggere brevi vibrazioni di liriche pulp e splatter scritte con un gusto unico e spesso avvicinate a brani di artisti del mondo rock e metal di indubbio spessore e valenza musicale. Ammetto che mi piacerebbe provare, solo per gioco, a cimentarmi in questo genere, ma prima di raggiungere la quota di Mattia, penso che non basterebbero altre 6 vite oltre a questa come un gatto. Nel breve racconto che segue avrete modo di addentrarvi in un racconto scritto “di pancia” (altrui) e decisamente “viscerale”, un volano per esorcizzare le reali carneficine che accadono quotidianamente nel mondo, con un pensiero speciale di comunione e cordoglio per i fatti che stanno umiliando la Birmania. Tornando al lato positivo, sono veramente contento di avervi fatto conoscere il nerbo di @phoenisia e il talento di @mattia_martignago, in una collaborazione che rappresenta un fulgido esempio di unione tra artisti veri che genera i sentimenti di rinascita e riscatto dei quali abbiamo tutti bisogno. Statemi in luce. (Filippo Fenara)
Ridere di sè è uno slancio poetico formidabile. Perchè porta il buonumore e lo espande a chi ti ascolta o, come in questo caso di Elisabeth Gioia Carbone, a chi ti legge. L’autoironia è una forma di cristallina bellezza intrinseca capace d’illuminare la propria immagine agli occhi altrui, è un efficace antidepressivo e si propaga nell’immediatezza di un sorriso, unica ed universale rimedio terapico. Se poi ci s’immagina un contesto bucolico, popolato da animali, bagnato da un sole ancora tiepido ma generoso ed una giovane ragazza che cade ripetutamente ed in maniera disastrosa per poi riderne follemente da sola, la magia è compiuta. Apprezzabile anche il volerlo raccontare su Instagram, rinunciando ad una maschera d’impeccabilità altezzosa che risulterebbe troppo rigida, poco umana e decisamente snob. Ma Elisabeth è anche questo, piacevolmente semplice, sorridente, Regina Mida nel rendere un “luzzo” (“caduta rovinosa” in una concessione esegetica felsinea) il motivo per trarne buonumore. Ho voluto lasciare, dopo questo scritto, anche il divertente commento esplicativo dell’autrice che ha saputo ridestarmi dal torpore di giornate di pesantezza detentiva, non sarà una poesia dal retaggio classico, ma ha un potere euforizzante molto oltre la soglia del quotidiano. Statemi in piedi… (Filippo Fenara)
MALDESTRI GESTI
Maldestri gesti,
di mattine incognite
ed eleganti scivolate.
Si manifesta lei,
autoironia esemplare.
Che è d’obbligo
ridere sulle proprie
furfanti disavventure.
Così, per trasmettere
alla vita, la nostra capacità
d’esistere.
Poiché serietà
attarae serietà,
sorriso chiama gioia.
/——————-/
Buon giorno mondo.🌈🌻
Nessuna Elisabeth è stata maltrattata per questo scritto.
Semplicemente, cadde, la bellezza di quattro volte nell’arco di una decina di minuti.
Ringrazio Priscilla, Gastone e Akira che hanno reso possibile tutto ciò.🌻🐱🐶
Alessandra è la fondatrice del @circolodellepoetesse, dal quale sono stato escluso a prescindere perchè in fondo la sua sensibilità è al corrente del lupo solitario che abita nel mio cuore. A parte gli scherzi, è un periodo nel quale trovo quest’autrice avvolta da una luminescente aura compositiva, districata dalla complessità obnubilante di concetti e lemmi troppo ricercati, in una calda e confidenziale veste di cantastorie che affabula con i suoi racconti in versi. Una dote di Alessandra che non posso fare a meno di menzionare è la mira nel centrare il focus delle sue poesie, di saper sempre arrivare ad un nucleo concreto di senso, non per questo rinunciando ad un’elegante estetica espositiva. Nella quasi totalità delle composizioni di questa autrice, lo scrivere è esporsi per ciò che si è e non nascondersi dietro maschere di versi, buoni solo come briciole date in pasto ai piccioni del web, c’è sempre una storia, un sentimento, un senso a fare l’armatura dello scheletro della sua coriacea poesia. Nè è esplicito esempio “Un Lupo Nel Cuore” dove è facile ritrovarsi, un tiepido focolare aulico nel quale scaldare il gelido sconforto, una metafora per chi non si darà mai per vinto, per chi protegge il proprio branco ed il proprio territorio senza farsi pestare i piedi, per quelli che sanno proteggerti ma anche, al momento giusto, possono mostrarti minacciosamente i denti. Mi è piaciuta tanto, perchè in fondo, Alessandra lo sa che nel cuore ho un lupo solitario ferito come, forse, anche lei. (Filippo Fenara)
Nel suo fresco excursus poetico, Lo Scribacchino continua a piacermi per la costanza e la continuità di prestazione ad alta quota. Oltre all’abile maneggiare e modellare un vocabolario ampio ma scevro di forbitismi da primadonna e falsi intellettualismi da collezionisti di premi da concorsi e contests inadeguati al fine, scende con sorsate di latticina poesia, nutriente per l’anima e di bianco candore agli occhi del lettore, adatta ai bambini, propedeutica ad una crescita emotiva sulla strada maestra del sentire universale. In questa poesia che ho voluto intitolare “La Chiave”, Lo Scribacchino impersonifica il passaggio tra i rigori dell’inverno e le infiorescenze della primavera, immagina il suo corpo nel bucolico boato della rinascita e lo fa “infiorando” la propria immagine che, come sta succedendo in questi giorni, “ha trovato la chiave” per uscire dalla gabbia del freddo e di panorami ammantati di neve ed ora è in procinto di fiorire. Raffinatissimo il riferimento allo “zefiro” che, per chi non lo sapesse, è un mite vento primaverile di ponente simile proprio ad un sussurro. Un inno alla mitigata grandezza della stagione che precede l’estate, al rinnovato miracolo della vita che esce dal letargo per ripetersi nei cicli astrali che si perpetuano nel tempo. Non conosco le finalità di questo giovane scrittore, so esclusivamente che mi piace leggerlo, seguirlo e diffonderne le delicate composizioni a quante più anime possa, conscio di un cristallino talento che lo conduce oltre le nuvole. Statemi in luce. (Filippo Fenara)
Giada è una nuova graditissima ospite nelle Carte Carbone alla quale ho deciso di dedicare un po’ del mio tempo perchè ho trovato qualcosa di stuzzicante nel suo scrivere, versi rarefatti ma incisivi, desueta palesazione dei contenuti, talento in essere. Ma cominciamo dallo pseudonimo: “@trionfoavolte” che considero un colpo di genio per l’impasto artigianale di fierezza nella vittoria piena con la farinosa abitudine alla sconfitta che, nella vita, prima o poi tutti dobbiamo accettare. Voto 1000 su 10. La rinascita attraverso l’iconica storia di Cartagine, l’alternare sensazioni personali con constatazioni oggettive storiche, l’incorporarsi in un segmento temporale illimitato costituito da morte e resurrezione, pare un voler sottolineare le dinamiche che coinvolgono non solo i singoli individui ma, in questo preciso periodo, tutta l’umanità. Lo stile scrittorio di Giada è ordinato ed asciutto, quasi a voler essere sentenziante attraverso formule poetico/matematiche, miscela con disinvoltura dati oggettivi e sentori quasi esoterici, l’impalpabile con il certo. Questo stupisce perchè rivela un’intelligenza emotiva ferrea che si riversa in parole come colonne di un tempio sacro, ci si trova la grandezza e la modestia, il TRIONFO del comunicarsi che purtroppo, fisiologicamente, A VOLTE finisce nella didattica sconfitta del non essere compresi. Poi, come Qart Hadasht, si rinasce e si scrive un’altra, splendida, poesia. (Filippo Fenara)
Conoscendo ormai la signorilità di Claudio Picchedda, non credo si scomponga se ho ritrovato in questi suoi accessibili versi un parallelismo (non un confronto, che in poesia non può esistere) con “Poesia” di Elisa Giusto aka @riemersa, ripubblicata ieri nella versione recitata da Francesca De Masi aka @inosservatapasso. Un assioma, un manifesto, una minuzia grandiosa quella di @cpbacco, quasi come un padre che trova le parole perfette per spiegare al figlio cos’è la poesia, l’appurata limpidezza comunicativa di questo autore non deve essere assolutamente sottovalutata, è una rara e straordinaria dote congenita che permette di convogliare il messaggio oltre la mera materialità del fine, dell’interesse, della carne destinata a dissolversi. Poi, in quanto alla bontà e genuinità dei contenuti non nutro nessun dubbio nei confronti di Claudio Picchedda, certamente come poeta, ma soprattutto come uomo, figlio della natura che regola i ritmi circadiani dell’oggi protratto all’infinito. Per tornare a discorsi più terreni, consiglio di seguirne il costante flusso creativo che, per qualità energetica trovo anche troppo costretto tra le regole lottizzanti di Instagram e dei vari social lager. Il suo messaggio dentro una bottiglia di trasparente e pregiato cristallo merita una eco perpetua. Statemi in luce. (Filippo Fenara)
Al di là della persona molto educatamente riservata che si anima dietro lo pseudonimo di Maia, trovo straordinario il personaggio palesato sul profilo Instagram: c’è geniale ironia, c’è un costante humus aulico d’alta quota, c’è sentimento, genio e trasgressione (un’accezione di “sregolatezza” su misura di questa artista), ci sono risate e momenti di riflessione, c’è commozione davanti all’innocenza della natura, c’è alterigia femminina e carezze consolatorie, alti e bassi, è vero, ma piace così com’è. C’è un’ape con il debole per il vino e a volte un po’ burbera, ma con un cuore dolce ed una traiettoria di volo verso la tranquillità della luna ed il bagliore delle stelle, c’è amore che cola come miele senza essere troppo autoreferenziale, sebbene una lettura distratta potrebbe portare ad interpretazioni errate. Come esempio presento questa “Sostanze Stupefacenti”, dove il confine tra le esperienze personali di Maia e l’universalità del romantico messaggio sembra svanire, tant’è che è facilissimo e calzante calarsi nella voce narrante di questi versi. Tra le tante eccellenze di Maia, in questo caso mi piace evidenziarne l’originalità lessicale che infrange le “regole” della poesia classica e l’impatto emotivo condensato in una manciata di parole, tutte con un potere ipnotico considerevole. Una delle tante ammirevoli elegie di Maia, che m’induce a pensare che l’unica maniera di resisterle è farsi legare all’albero maestro dell’imbarcazione come Ulisse, altrimenti si rischierebbe fortemente d’innamorarsi. Di un’ape. Regina. (Filippo Fenara)
Non conosco ancora bene Acus. Ho appena dato una scorsa al suo profilo Instagram e ne ho tratto un’immediata sensazione positiva: innanzi tutto non è uno di quegli autori che parla solo d’amore e di abbandono, molte delle sue liriche vertono sul sociale, con una lettura lucida e non estremista dei problemi che affliggono lo status quo attuale poi, tecnicamente, mostra un suo personale stile molto equilibrato e facilmente fruibile, con l’eleganza del verso e l’assenza di inutili orpelli che ne intaccherebbero la lineare e fluida logica. Ovviamente, per cogliere il mood di Acus è necessario calarsi nel suo repertorio attraverso il suo profilo Instagram, cosa che vi consiglio di fare, mentre con qualche carta carbone cercherò di aperitivizzarvene la conoscenza. A Bologna, quando qualcuno ha qualche dote creativa o logica sopra la media si dice che “ha dello sbuzzo”: ecco, a pelle direi che questo autore ha proprio dello sbuzzo, sarà il tempo a farcene apprezzare i risultati sotto forma di versi fuori dalla media, per ora leggetevi questa lirica emblematica dei tempi che stiamo vivendo. (Filippo Fenara)
Onestamente, questa volta, non so cosa scrivere di Manuela Di Dalmazi. Ho già detto tanto di lei, della sua crescita esponenziale, della sua piumata gentilezza, del suo saper narrare di eros come di dinamiche di dissenso sociale con la stessa, ficcante, maestria. Secondo me è una delle poche persone che vive già nel futuro del proprio presente, che sale verso la cima cosciente da dove è partita, che mostra le sue molteplici sfaccettature in una personalità integra e contemporaneamente complessa. Questa “Tramonto In Te” è una splendida flambata d’eros che preannuncia il suo prossimo lavoro “Vietato L’ingresso Ai Non Addetti All’amore” che, dalle anteprime, dà l’idea di essere un vero e proprio masterpiece dell’italica poesia. Parole rarefatte che hanno il potere erotico per destabilizzare qualsiasi anima sensibile, riferimenti bucolici che arroventano l’atmosfera in un battito di ciglia, il gioco più peccaminoso del quale Manuela Di Dalmazi traccia contorni netti e li colora di rosso fuoco, come quello che arde nelle sue arterie. Perchè guardare il grande fratello o il telegiornale in televisione quando ci sono persone in grado di regalarvi emozioni vere e non fictions parruccate? Statemi in dubbio. (Filippo Fenara)
Dopo un estemporaneo scambio in chat con lei dove affermavo che il “lato oscuro” di ogni persona è ovviamente quello più intrigante e attrattivo, la Eli ha deciso di scendere in versi con questo full d’assi lirico che mi ha gustato come uno shottino di rum e kahlua buttato giù tutto d’un fiato. La Eli la conosciamo per la sua incredibile forza comunicativa, per l’imperiosità con la quale dispone le sue simmetriche logiche emotive in diagrammi a flusso verticali ed anche in questa occasione non si è smentita: spiovono temporalesche le sue parole dove rimane in sospeso tra il mascherare e lo smascherare il suo “lato oscuro” alimentando la curiosità, innescando dinamiche di desiderio iperaccentuate, dicendo ma non dicendo. Maestria e marketing sentimentale, non conosco personalmente la Eli, ma mi si perdoni il termine, dà l’impressione di una persona che “sa vendersi bene”, probabilmente per ancestrali eredità dell’essere meneghino o la sensuale intelligenza emotiva che la poetessa milanese emana. Poche parole ma un senso compiuto evidente, per tener celata, ancora una volta, la sua “metà oscura”. Statemi nella tenebra. (Filippo Fenara)
Dopo un involontario cut off durato qualche mese, ho la fortuna di reincontrare la poesia inaspettata di Veronica Annunziata in una reazione ad un periodo di silenzio digitale. Ho sempre asserito che @phoenisia, quando vuole, ha un potere espressivo senza pari, diretto, urbano, viscerale e d’impatto. Questa poesia riporta una scrittura “di pancia” filtrata dal suo elevato skill culturale, ogni verso è un potenziale aforisma, ogni parola racchiude sofferenza e sogno, amore e distacco: unico e raro è lo stile che caratterizza la poetessa partenopea nello sciorinare nettari lessicali che deliziano gli occhi del lettore come “ed io non riesco più a creare un abbraccio che ti includa in me” e “diverrei lampo che t’attraversi di luce”, brensi stratagemmi dialettici che secernono intrigo, passione, logos a braccetto col ludos. Dopo questa raggiante re entry, mi aspetto il solito volo ad alta quota di Veronica, in una continuità che delizia i nostri cuori istruendoli a nuove modalità di passione e comunione. Rimani in luce @phoenisia, ti vogliamo così. (Filippo Fenara)
SENZA TITOLO
Strappato il mio cielo di carta
cadute le mie braccia
come rami inerti
ed io non riesco più a creare un abbraccio che ti includa in me
Il ritorno, oramai settimanale, di Ettore Massarese tra le Carte Carbone, arriva in nome della “modestia” e della “grandezza”, sulle quali abbiamo avuto un veloce scambio di vedute tra i commenti della poesia che, a breve, avrete il piacere di leggere. Il mio punto di vista è che l’una prescinde dall’altra ed essendo l’artista partenopeo una persona dall’eccezionale modestia, lo considero a maggior ragione un grande uomo e poeta, al di là del suo curriculum, della sua posizione sociale e dell’oggettiva qualità tecnica che lo contraddistingue. In questa “Fata” è facile ravvisare il profumo salmastro che si propaga nei vicoli del capoluogo campano, ci si ricongiunge ai meandri della contraddittoria ma irrinunciabile quotidianità di Napoli, il tutto seguendo il filo di una narrazione idilliaca che il dialetto rende ancora più passionale e verace. Un assioma perfetto nella sua mitigata aulicità popolare, un manifesto in onore di tutte le donne che non sfigurerebbe come leit motiv non solo l’otto Marzo, ma ogni santo giorno che la Vergine Maria manda in terra. Mi sono subito affezionato a questo sinuoso componimento, ci sento le radici e la chioma, il cielo e la terra, il desiderio e il sentimento, la modestia e la…grandezza di Ettore Massarese. (Filippo Fenara)
Il titolo “graffio” l’ho scelto io, sulla base di una personale valutazione estetica: se guardate da lontano la poesia di LeeLoo, vi accorgerete che non ci sono versi lunghi anzi, la narrazione risulta essere spezzettata in parole lottizzate in capoversi continui, come a formare una perpendicolare espositiva. Un graffio sull’anima. Uno sfregio subito dalla poetessa di sede a Londra del quale, per orgoglio e dignità, sembra evitare di mostrarne le conseguenze interiori. Che ci sono, e si sentono sottotraccia. Una delusione, un tradimento, un sopruso, verso il quale LeeLoo vuole mostrarsi imperturbabile e irriverentemente non ferita – “porgo la gota rigata” – ma che, probabilmente, è arrivato inaspettato e, con il cuore ipertrofico per il quale conosciamo l’artista, brucia sotto quel velo di “asettica” caduta. Mi ricorda il titolo del libro di Oriana Fallaci “La Rabbia e L’orgoglio” dove i due sentimenti si confrontano alacremente sotto il glaciale pack del polo poetico dell’elegia senza riemergere prima di essersi stemperati nel tempo e nella mitigazione del focoso e passionale animo di LeeLoo. Di questa traccia mi scalda la preponderante sentimentalità dell’autrice nascosta dietro un dito ben costruito di matura diplomazia e ricerca del riallaccio e della risoluzione del conflitto. Lo ammetto: quello che mi ha sempre ispirato di questa scrittrice è la capacita di trasformare il lume di una candela in un pirotecnico erudere di lapilli interiori dei quali, anche se celati, ne ravviso il magmatico ardere. (Filippo Fenara)
GRAFFIO
In caduta
asettica,
soffio
spiragli
in dissonanza
sulle note
dell’essere.
Allacciata
la corda
del tempo
porgo
la gota
rigata,
graffio
e piega,
segno
del mio
vivere.
Dall’ultima “Cielo”, cartacarbonata giusto la settimana passata, qualcosa si è incrinato, e il flusso di Alessandra scende in un dissing nemmeno troppo dissimulato, un punteruolo da ghiaccio che s’infilza nella carne viva del suo target, si abbatte liricamente come un predatore su un obiettivo dal destino oramai segnato, una vittima predestinata. Tengo a fare una necessaria precisazione che eviti problemi che in passato ho pagato, secondo me, ingiustamente: io, abituato alle “battles” di rap fin dalla prima adolescenza dove mi confrontavo con altri b-boys in strada in uno scambio di offese (spesso alle rispettive ed incolpevoli mamme) che si concludevano con un abbraccio, una birretta e la buonanotte, considero i dissing come forma aritstica che si oppone alle violenze vere e proprie esorcizzandole, non è mia intenzione fomentare qualsivoglia conflitto personale o sociale e mi schiero per la risoluzione pacifica dei contrasti. Però “Fame” scende cattiva, perentoria e risoluta. A livello letterario è una falce che non lascia scampo pur non utilizzando termini volgari, è esempio di compattezza senza fronzoli, una sentenza della cassazione che non concede repliche. Un’insieme di enunciati recisivi come “eccitando lo spasmo dell’ombra” o “fugge, fallita l’estorsione di pietà” che descrivono una persona subdola, viscida nel suo ostentare “il sonno dei tormenti” per destare interesse e conquistare visibilità e credibilità. Vi consiglio di guardare il reel di @senzavoce.it con la greve canzone di Marilyn Manson cliccando QUI, nella speranza che le diatribe si risolvano dopo un catartico sfogo non violento e la ricerca della sintonia nei confronti del prossimo. (Filippo Fenara)
Dopo aver messo tutti “in riga” con la sua prosa densa come miele e invasiva come lubrificato irrinunciabile linimento, Luisa Cataldi decide di sfoderare il fioretto della poesia in un affondo sentimentale ad alta quota emotiva, architettando la propria nudità di spalle come l’altro taglio di una lama, dove un forte orgoglio alimentato dalla frustrazione “d’essere stata troppo a lungo relegata in un cassetto” si palesa forte per poi stemperarsi lentamente lungo il fluire armonioso dei versi. Forse non esiste il “delitto perfetto” ma questa poesia profuma d’intonso, trasparente, scorrevole, sensato, impeccabile: il flusso significante di Luisa Cataldi eccelle in disciplina letteraria, nonchè in una tetragona presenza in primo piano di contenuti distillati dalla propria anima. Dopo essermi calato tra queste onde sinaptiche, nel riemergere mi è sovvenuto che, l’anno scorso, avevo scritto una cosa intitolata “Rivestirsi”, che poteva essere l’asincronico pensiero maschile in un confronto speculare con questa “Spogliarsi”: una coincidenza, la prova provata della fisica quantistica, non so, comunque, alle 21:00, ripubblicherò la mia composizione e vi assicuro che leggere le due poesie in sequenza sarà un’esperienza a dir poco lisergica. Segno che io e Luisa Cataldi siamo in connessione empatica, e questa per me è la notizia che svolta la giornata. Statemi in luce. (Filippo Fenara)
SPOGLIARSI
Spogliarsi
al tuo cospetto
d’ogni convinta imperfezione,
nuda ed offesa
dall’amara frustrazione
d’essere stata troppo
a lungo relegata nel cassetto
mai sepolto
di un ricordo.
Mi sforzo di godere
d’un piacere
che pur resta taciturno,
ma ti mostro
solamente le mie spalle.
La parte forse
migliore di me
verrà allorquando
avrai afferrato il senso
d’ogni vertigine sul mio corpo
e gli occhi miei avranno smesso
di sorvolare la ruvida
parete per ferirsi
nuovamente
dentro i tuoi.
Non so nulla – giustamente – di come procede la sua vita privata, è da un po’ però che ravviso un picco d’ispirazione nello scrivere di Ilaria e mi chiedo se il suo esprimersi combaci con il suo viversi quotidianamente. Pura curiosità esegetica. Fatto sta che le sue parole vanno oltre la semiotica, diventano icone, accentramenti di senso e di sensi, questa “Sole Padrone” è paradigmatica nel suo imbocco iniziale semplice e diretto, come la corsia d’accelerazione di un’autostrada che dirige verso un mondo più onirico, costituito dalla mancanza di angeli “disposti a scostare gli scarti dei tuoi sospiri”, un “sole padrone” accerchiato come il totem di una tribù indiana e l’impavido “bruciare la fiamma”. In questa breve poesia di Ilaria, ho trovato l’aforisma ineluttabile e la dissonanza jazz, un voler imprimere calchi d’anima bypassando il labor limae, l’impulso slam poetry, la freschezza e il surreale che s’alternano rievocando (ovviamente con tutta la modestia che il paragone merita) alcune tecniche cinematografiche di David Lynch e del periodo “pulp”. Leggetela ma soprattutto seguite Ilaria sul profilo Instagram, ho il sospetto che il segreto di questo suo “momento magico” sia il non rendersene completamente conto. Statemi in luce. (Filippo Fenara)
Personalmente ho un debole per la fotografia impulsiva di La Fleur (ospite della rubrica Foto Sintesi che potrete trovare QUI) e mi viene da pensare lo covi anche l’eccelsa Elisa Giusto, la quale si è ispirata proprio ad un’immagine dell’artista piemontese per delineare una discesa poetica talmente ripida nell’esposizione da togliere il fiato e lasciare un graffito indelebile sul fianco dei treni che passano nelle vite degli innamorati. In questo vortice lessicale però, i passeggeri decidono di non salire sul vagone che li avrebbe convogliati verso una destinazione comune e il risultato di questa favola senza lieto fine ma assolutamente possibile è quello proprio di due foglie a forma di cuore che si seccano sotto un sole impietoso. Mi hanno fatto riflettere molto i versi centrali del poema “potrei avvicinarmi ma per difesa di anima fraintesa nei versi amo celarmi”, quindi espressione inversa, nascondiglio invece di disvelamento, implosione al posto di propagazione del sè. Un comportamento dai tratti prettamente femminili (ma non solo) che si sdoppia in due interpretazioni (nelle quali il possibile partner di solito sceglie quella sbagliata…), la prima è una sorta di recesso induttivo, ovvero che mira ad essere inseguito nella tana emotiva per “giocarsi la partita” in un territorio conosciuto e congeniale al soggetto scrivente. La seconda combacia con le parole vergate, ovvero si rinuncia veramente all’idillio proprio per paura di essere fraintesi e anche questo succede frequentemente nell’incontro tra soggetti che si attraggono e finiscono “a terra, stremati” con “la forma di chi ha saputo amare”. La Fleur e Elisa Giusto, un connubio struggente. Statemi in luce. (Filippo Fenara)