Era dal 6 Gennaio che mi ero impigliato nell’ipnotica cronaca del pensiero di questo racconto, lo leggevo e rileggevo quasi intimidito dal virtuoso flusso lessicale di Alessandro Gianesini. Perchè la verità è che, in questo caso, non credo che l’autore abbia bisogno della modesta diffusione che, con tutto il gratuito impegno che ci metto, posso offrire ai suoi componimenti. È l’esatto contrario, per cui lo ringrazio per la gentile concessione di questo suo pezzo che utilizzerò per fare in modo che la delizia di questa lettura non sia solo un mio profondo piacere, ma un nutrimento per le anime umiliate dai contenuti miseri della comunicazione di consumo o intrattenimento. Mi prendo solo la libertà di pubblicare, prima del componimento, un brano di Chet Baker che ho sentito fin da subito abbinato all’atmosfera uggiosa di questo sentimento in lettere. (Filippo Fenara)
IN UNA SERA DI PIOGGIA
Che bello essere qui, circondato da vetro da un lato e… boh, dall’altro chi lo sa che mischiume archetipizzato sarà?
Per fortuna, appena oltre, c’è la pioggia che scende battente e il tintinnare trapanante giunge pur da sopra, dove rivettate lamiere impediscono che mi percoli il fresco liquido sulla testa e, com’è solito accadere in cotante occasioni, giù per la nuca, il coppino, a refrigerare bollenti spiriti che d’ebollizione han solo sparuta memoria e nella pentola che mette pressione alla vita ne sono usciti sfilacciati e stopposi.
La pioggia, dunque, elemento naturale che raccatta tutto lo sporco che incontra nel suo scivolare lungo il cielo, piano inclinato verso il baratro del mondo, piatto e circondato da possenti mura ghiacciate, affinché non ci affossiamo ancor più in profondità nell’abisso null’entropico.
Luci che sfrecciano, scie bianche su asfalti scuri, rugosi e piagati dal peso dell’esistenza breve che li ha voluti dove sono: sono quelle che mi ricordano che c’è morte oltre la vita, così come c’è luce oltre al buio di interiora nutriesche e nutrienti, esposte al ludibrio di gazze fameliche e cornacchie arroganti.
Passanti sperduti su strade dritte e senza svincoli chiedono lumi, ma le stelle e la luna sono coperte da coltri oscure e invisibili nel buio della sera e non posso certo indicare la via per la grotta e la greppia, destinazione di codesti magi moderni, che senza gps non distinguono una cometa da un’artefatta luminaria. Eppur li irrido, ingiungendo di proseguir dritto fino alla prossima curva e poi spetterà a loro sceglier come continuare, se adeguarsi alla strada, o restare coerenti al mio dire.
La notte s’appressa, le palpebre s’appesantiscono, la vita non germina in questo pantano bituminoso e tetro, che si mette in mostra solo se additato dai feroci led che minacciano col loro puro candore l’eresia del resto del mondo.
Applausi scrosciano… No, m’inganno! È sempre la pioggia a simular persone viventi tutt’intorno, col suo scalpiccio indefesso. Io sorrido amaro al monte, negro per la notte avviluppante e tenebrosa, pronta a esser solcata da saggine cavalcate da bellissime megere recanti doni, sogni, incubi e tutto quel che si può desiderare in una sera di pioggia.