Facciamo un distinguo: chi è Sonic Area? Sonic Area è uno dei progetti di un produttore, dj, ingegnere del suono, remixer di Strasburgo (come i superlativi Lemming Suicide Myth di cui ho scritto QUI. Ma che città è Strasburgo? Ci devo andare prestissimo…) che di pseudonimo fa Arco Trauma, all’anagrafe meglio conosciuto come Arnaud Coëffic. Ha collaborato con grandissimi nomi della musica (non commerciale) mondiale ed è membro effettivo dei celeberrimi Tamboures Du Bronx, mentre porta avanti numerosi progetti paralleli tutti accomunati dal flavour per un’elettronica d’elite che sembra fare riferimento solo vagamente ai Kraftwerk nel concepimento dei brani più industriali, ma che si affranca da qualsiasi confronto o similitudine in una sorta di emancipazione creativa ad alto coinvolgimento emotivo e sonoro. Tutti i suoi lavori, pur cavalcando l’onda digitale, sono molto diversi ed io ho scelto questo fantasmagorico “Eternalism” da presentarvi per i suoi suoni robotici ed industriali e la tribale ritmicità dei tappeti di beats autentici e coinvolgenti. Sono oramai mesi che m’inoculo massicce dosi di questo album, sebbene tutta la produzione dell’artista francese meriti attenzione, per ora vi schiaffo sull’articolo una delle due tracce che mi piacerebbe ascoltaste con la giusta atmosfera meditativa. Questa è “Once More Unto The Breach Dear Friends”, imperial electro feels…
Lo so, potrebbe risultare un po’ indigesto per i non cultori del genere, ma il mio credo vuole che le menti siano aperte ad ogni novità, suono, immagine e messaggio, detesto il pensiero comune trascendente da centri di potere mediatico che falciano milioni di anime con la lama del nulla inadeguato, pur essendo loro stessi risorgive di vuoto ed ignoranza senza fondo. Ricostruiamoci con la prossima impronta dal titolo singolare di “The Soul Of a Robot”, dopo tireremo le somme.
“Where is a soul? In the mind”, agghiacciante per quanto cinicamente vero. Ragazzi, questi sono i Sonic Area, il lasciapassare per il circuito stampato del vostro subconscio, lo spirito tradotto in bits, l’essenziale che diventa olistico e ci catapulta nella massificazione minimalista di noi stessi. Credo di avervi dato una buona dritta. Statemi in luce. (Filippo Fenara)
Onestamente, questa volta, non so cosa scrivere di Manuela Di Dalmazi. Ho già detto tanto di lei, della sua crescita esponenziale, della sua piumata gentilezza, del suo saper narrare di eros come di dinamiche di dissenso sociale con la stessa, ficcante, maestria. Secondo me è una delle poche persone che vive già nel futuro del proprio presente, che sale verso la cima cosciente da dove è partita, che mostra le sue molteplici sfaccettature in una personalità integra e contemporaneamente complessa. Questa “Tramonto In Te” è una splendida flambata d’eros che preannuncia il suo prossimo lavoro “Vietato L’ingresso Ai Non Addetti All’amore” che, dalle anteprime, dà l’idea di essere un vero e proprio masterpiece dell’italica poesia. Parole rarefatte che hanno il potere erotico per destabilizzare qualsiasi anima sensibile, riferimenti bucolici che arroventano l’atmosfera in un battito di ciglia, il gioco più peccaminoso del quale Manuela Di Dalmazi traccia contorni netti e li colora di rosso fuoco, come quello che arde nelle sue arterie. Perchè guardare il grande fratello o il telegiornale in televisione quando ci sono persone in grado di regalarvi emozioni vere e non fictions parruccate? Statemi in dubbio. (Filippo Fenara)
Dopo un estemporaneo scambio in chat con lei dove affermavo che il “lato oscuro” di ogni persona è ovviamente quello più intrigante e attrattivo, la Eli ha deciso di scendere in versi con questo full d’assi lirico che mi ha gustato come uno shottino di rum e kahlua buttato giù tutto d’un fiato. La Eli la conosciamo per la sua incredibile forza comunicativa, per l’imperiosità con la quale dispone le sue simmetriche logiche emotive in diagrammi a flusso verticali ed anche in questa occasione non si è smentita: spiovono temporalesche le sue parole dove rimane in sospeso tra il mascherare e lo smascherare il suo “lato oscuro” alimentando la curiosità, innescando dinamiche di desiderio iperaccentuate, dicendo ma non dicendo. Maestria e marketing sentimentale, non conosco personalmente la Eli, ma mi si perdoni il termine, dà l’impressione di una persona che “sa vendersi bene”, probabilmente per ancestrali eredità dell’essere meneghino o la sensuale intelligenza emotiva che la poetessa milanese emana. Poche parole ma un senso compiuto evidente, per tener celata, ancora una volta, la sua “metà oscura”. Statemi nella tenebra. (Filippo Fenara)
Il ritorno, oramai settimanale, di Ettore Massarese tra le Carte Carbone, arriva in nome della “modestia” e della “grandezza”, sulle quali abbiamo avuto un veloce scambio di vedute tra i commenti della poesia che, a breve, avrete il piacere di leggere. Il mio punto di vista è che l’una prescinde dall’altra ed essendo l’artista partenopeo una persona dall’eccezionale modestia, lo considero a maggior ragione un grande uomo e poeta, al di là del suo curriculum, della sua posizione sociale e dell’oggettiva qualità tecnica che lo contraddistingue. In questa “Fata” è facile ravvisare il profumo salmastro che si propaga nei vicoli del capoluogo campano, ci si ricongiunge ai meandri della contraddittoria ma irrinunciabile quotidianità di Napoli, il tutto seguendo il filo di una narrazione idilliaca che il dialetto rende ancora più passionale e verace. Un assioma perfetto nella sua mitigata aulicità popolare, un manifesto in onore di tutte le donne che non sfigurerebbe come leit motiv non solo l’otto Marzo, ma ogni santo giorno che la Vergine Maria manda in terra. Mi sono subito affezionato a questo sinuoso componimento, ci sento le radici e la chioma, il cielo e la terra, il desiderio e il sentimento, la modestia e la…grandezza di Ettore Massarese. (Filippo Fenara)
Il titolo “graffio” l’ho scelto io, sulla base di una personale valutazione estetica: se guardate da lontano la poesia di LeeLoo, vi accorgerete che non ci sono versi lunghi anzi, la narrazione risulta essere spezzettata in parole lottizzate in capoversi continui, come a formare una perpendicolare espositiva. Un graffio sull’anima. Uno sfregio subito dalla poetessa di sede a Londra del quale, per orgoglio e dignità, sembra evitare di mostrarne le conseguenze interiori. Che ci sono, e si sentono sottotraccia. Una delusione, un tradimento, un sopruso, verso il quale LeeLoo vuole mostrarsi imperturbabile e irriverentemente non ferita – “porgo la gota rigata” – ma che, probabilmente, è arrivato inaspettato e, con il cuore ipertrofico per il quale conosciamo l’artista, brucia sotto quel velo di “asettica” caduta. Mi ricorda il titolo del libro di Oriana Fallaci “La Rabbia e L’orgoglio” dove i due sentimenti si confrontano alacremente sotto il glaciale pack del polo poetico dell’elegia senza riemergere prima di essersi stemperati nel tempo e nella mitigazione del focoso e passionale animo di LeeLoo. Di questa traccia mi scalda la preponderante sentimentalità dell’autrice nascosta dietro un dito ben costruito di matura diplomazia e ricerca del riallaccio e della risoluzione del conflitto. Lo ammetto: quello che mi ha sempre ispirato di questa scrittrice è la capacita di trasformare il lume di una candela in un pirotecnico erudere di lapilli interiori dei quali, anche se celati, ne ravviso il magmatico ardere. (Filippo Fenara)
GRAFFIO
In caduta
asettica,
soffio
spiragli
in dissonanza
sulle note
dell’essere.
Allacciata
la corda
del tempo
porgo
la gota
rigata,
graffio
e piega,
segno
del mio
vivere.
Dall’ultima “Cielo”, cartacarbonata giusto la settimana passata, qualcosa si è incrinato, e il flusso di Alessandra scende in un dissing nemmeno troppo dissimulato, un punteruolo da ghiaccio che s’infilza nella carne viva del suo target, si abbatte liricamente come un predatore su un obiettivo dal destino oramai segnato, una vittima predestinata. Tengo a fare una necessaria precisazione che eviti problemi che in passato ho pagato, secondo me, ingiustamente: io, abituato alle “battles” di rap fin dalla prima adolescenza dove mi confrontavo con altri b-boys in strada in uno scambio di offese (spesso alle rispettive ed incolpevoli mamme) che si concludevano con un abbraccio, una birretta e la buonanotte, considero i dissing come forma aritstica che si oppone alle violenze vere e proprie esorcizzandole, non è mia intenzione fomentare qualsivoglia conflitto personale o sociale e mi schiero per la risoluzione pacifica dei contrasti. Però “Fame” scende cattiva, perentoria e risoluta. A livello letterario è una falce che non lascia scampo pur non utilizzando termini volgari, è esempio di compattezza senza fronzoli, una sentenza della cassazione che non concede repliche. Un’insieme di enunciati recisivi come “eccitando lo spasmo dell’ombra” o “fugge, fallita l’estorsione di pietà” che descrivono una persona subdola, viscida nel suo ostentare “il sonno dei tormenti” per destare interesse e conquistare visibilità e credibilità. Vi consiglio di guardare il reel di @senzavoce.it con la greve canzone di Marilyn Manson cliccando QUI, nella speranza che le diatribe si risolvano dopo un catartico sfogo non violento e la ricerca della sintonia nei confronti del prossimo. (Filippo Fenara)
Era da tempo che anelavo ad una collaborazione con il “groovy” Francesco Minichini ed è successo in maniera atemporale per volontà coincidenti al di fuori dello spazio e del tempo: scrissi difatti una cosa intitolata “Hikikomori” tempo fa, ed ho ritrovato il bandolo della matassa in questo tagliente sfregio d’anima del “compagno di merende” Jodelaki che ha suggellato il suo scritto con lo stesso titolo. Ma non è tanto l’intestazione a fare da denominatore comune, quanto il pensiero desocializzante che impernia i due scritti, la quieta mascolinità disidentificata da una società nella quale adattarsi corrisponde a soccombere. Credo che sia per Filippo che per Francesco l’autoesilio venga manifestato come un diritto inalienabile, in un sistema che vorrebbe recluderci tramite il peggio e la vacuità morale dentro “soffocanti” recinti digitali chiamati paradossalmente “social networks”, all’interno di banali frasi fatte che nascondono una sleale ipocrisia di massa, mentre il mondo “reale” sta per essere coercitivamente sgomberato come se ogni essere umano non avesse gli stessi diritti (o meglio, privilegi) dei suinidi oligarchi e dei loro turpi servitori. Mentre la mia cosa è più simile ad un cactus che con le sue spine tende a tenere a distanza chiunque, il flusso di Jodelaki è più interiorizzato, anche se di facile lettura in “presa diretta”. Non so in quanti leggeranno queste due scariche elettriche, ma sono certo che chi lo farà troverà un senso nuovo nello smembramento di uno status quo suicida per spianare la strada alla nuova era. Strizzo l’occhio a Francesco Minichini e vi auguro di stare in luce. (Filippo Fenara)
Ringraziamo dal profondo del cuore il lavoro grafico di Francesca De Masi aka @inosservatapasso che rappresenta sè stessa donando il suo tempo e non perdendosi in false promesse o chiacchiere senza valore alcuno.
Non so nulla – giustamente – di come procede la sua vita privata, è da un po’ però che ravviso un picco d’ispirazione nello scrivere di Ilaria e mi chiedo se il suo esprimersi combaci con il suo viversi quotidianamente. Pura curiosità esegetica. Fatto sta che le sue parole vanno oltre la semiotica, diventano icone, accentramenti di senso e di sensi, questa “Sole Padrone” è paradigmatica nel suo imbocco iniziale semplice e diretto, come la corsia d’accelerazione di un’autostrada che dirige verso un mondo più onirico, costituito dalla mancanza di angeli “disposti a scostare gli scarti dei tuoi sospiri”, un “sole padrone” accerchiato come il totem di una tribù indiana e l’impavido “bruciare la fiamma”. In questa breve poesia di Ilaria, ho trovato l’aforisma ineluttabile e la dissonanza jazz, un voler imprimere calchi d’anima bypassando il labor limae, l’impulso slam poetry, la freschezza e il surreale che s’alternano rievocando (ovviamente con tutta la modestia che il paragone merita) alcune tecniche cinematografiche di David Lynch e del periodo “pulp”. Leggetela ma soprattutto seguite Ilaria sul profilo Instagram, ho il sospetto che il segreto di questo suo “momento magico” sia il non rendersene completamente conto. Statemi in luce. (Filippo Fenara)
Non poteva mancare la parlata popolare dell’alto mantovano (come specifica Alessandro Gianesini) ad arricchire le pagine di Le Mie Cose dei colori e suoni dei dialetti italiani. Il mio blog svaria a centrocampo tra rap colombiano, poesia classica, neologismi, racconti e vernacoli, sono indagato per il reato di “coacervo tematico” ma giuro di essere innocente, un giorno vi spiegherò il denominatore comune tra tutte queste discipline che qualcuno vorrebbe frammentare in minuscole briciole di niente. Non mi dilungo ulteriormente perchè l’articolo di Alessandro Gianesini è già completo di tutto, audio, testo, accordi e traduzione, ed anche sotto il lockdown più rosso sarà comunque possibile scavalcare i confini dei social per visitare il suo sito (del quale vi lascio i links in calce) “Alessandro Gianesini – Lo Scribacchino Del Web”, uno tra i più ricchi di contenuti di valore che si sedimentano nell’anima, al contrario della sozzeria inesistente dei mass media. Ora allegria con “El Pensiunat”, statemi in luce!!! (Filippo Fenara)
Ecco il secondo dei tre brani tradotti dal dialetto dell’alto mantovano (che non lo si chiami dialetto mantovano, o i cittadini si incazzano come delle iene, quelle dell’Arca del brano scorso), stavolta a tematica sociale.
Per chi si diletta a suonare, ci sono pure gli accordi!
El pensiunàt Il pensionato
Fa#m Re Fa#m Re
L’è trent’an che so en pensiù dop quaranta de laurà Sono trent’anni che sono in pensione dopo quaranta di lavoro
Fa#m Re La Mi
L’è ‘na gran sudisfasiù, fo na vita de pascià È una grande soddisfazione, faccio una vita da pascià
Töt i dè g’ò quel de fa, fo la fila dal dutùr Tutti i giorni ho qualcosa da fare, faccio la fila dal dottore
Perde gnanca ‘n füneràl, vo al simitere a cambia i fiùr Non mi perdo nemmeno un funerale, vado al cimitero a cambiare i fiori
Re Do# Fa#m Si
Cos’è la vita, te naset, te creset, te spuset, t’engraset Cos’è la vita, nasci, cresci, ti sposi, t’ingrassi
Re Mi Fa#m
E po te spetet, te speret che ries el dè de nà ‘n pensiù E poi aspetti, speri che arrivi il giorno di andare in pensione
E finalmente desvonte le ante che i è inchiculente E finalmente pulisco le ante che sono luride
Fo quel che öle, adès poche bale, cumanda el vintidù! Faccio quel che voglio, adesso poche balle, comanda il ventidue (probabilmente riferito alla classe, ndr)
Merculdè Radio Maria, ma el giuedè me vo al mercà. Mercoledì Radio Maria, ma giovedì vado al mercato (giorno del mercato a Castel Goffredo, paese d’origine del gruppo, ndr)
Po vo al bar a bèer en bianc, quasi quasi en bèe dù Poi vado al bar a bere un bianco, quasi quasi ne bevo due
Me fo da apò en boero, l’è na vita de sbalù Mi faccio dare anche un boero, è una vita da sballone
Cos’è la vita, te naset, te creset, te spuset, t’engraset Cos’è la vita, nasci, cresci, ti sposi, t’ingrassi
E po te spetet, te spere che ries el dè de nà ‘n pensiù E poi aspetti, speri che arrivi il giorno di andare in pensione
Ma veramente finìt co le ante g’ò pö de fa niente Ma veramente finito con le ante non ho più niente da fare
Vaca galèra, che ria pö sera, so drè a nà ‘n depresiù! Vacca galera, qui non arriva più sera, sto andando in depressione!
G’ò tre fiöi che i è n’amore, i m’à gnanca stracagàt Ho tre figli che sono un amore, non mi cagano nemmeno di striscio
I speta apena che me möre per ciücàs l’eredità! Aspettano solo che io muoia per beccarsi l’eredità
Ma i neùcc i me öl bè, i me ciàa la dentiera Ma i nipoti mi vogliono bene, mi fregano la dentiera
I me cagà en del bidè, g’ò mess al mond di disgrasiacc! Fan la cacca nel bidet, ho messo al mondo dei disgraziati!
Cos’è la vita, te naset, te creset, te spuset, t’engraset Cos’è la vita, nasci, cresci, ti sposi, t’ingrassi
E po te spetet, te spere che ries el dè de nà ‘n pensiù E poi aspetti, speri che arrivi il giorno di andare in pensione
G’ò tre palanche ma ghe do mia niente ai parencc, chi bröi cancher Ho tre soldini ma non do niente ai parenti, quei brutti cancheri
Se anche ghe sonte, me töle la badante, me maie föra töt! Se anche ci rimetto, mi prendo la badante, mi mangio fuori tutto!
Le ‘na bionda strepitusa, quand andòm en söl mercà È una bionda strepitosa, quando andiamo sul mercato
Töcc i omm i la sgulusa, i è invidiùs cumpagn di cà! Tutti gli uomini la sgolosano, sono invidiosi come dei cani!
E la not gh’è mia pö freno, ni e cuntòm le barselete E la notte non c’è freno, ci raccontiamo le barzellette
Me en dialèt le en ceceno, e so vodka a butigliù! Io in dialetto e lei in ceceno, e giù vodka a bottiglioni!
Cos’è la vita, te naset, te creset, te spuset, t’engraset Cos’è la vita, nasci, cresci, ti sposi, t’ingrassi
E po te spetet, te spere che ries el dè de nà ‘n pensiù E poi aspetti, speri che arrivi il giorno di andare in pensione
Sicüramente se sie pö pimpante me sucedìa niente Sicuramente se ero più pimpante non mi succedeva niente
So riàt al dunque, g’ò vist le müdande e me gnìt un infartù! Sono arrivato al dunque, le ho visto le mutande e mi è venuto un infarto!
Anche stavolta non mancano alcuni riferimenti territoriali, come il giorno di mercato del paese e altre piccole cose secondarie, ma credo che questa canzone possa essere esportabile in tutto il territorio nazionale per la sua valenza culturale!
Articolo originale e traduzione in italiano di Alessandro Gianesini
Pensandoti, m’esilio dal tempo coincidimi oltre il dissenso affacciati sul tuo mancarmi sbagliami se non puoi indovinarmi.
Spiegami io non so capirmi e tacimi se non sai che dirmi… la tua vanità pronuncia l’addio salpando, fendo l’oblio.
In nome di tutte le gocce di brina lungo lo stelo di questa mattina per Dio, non sono se tu non mi sei allora, fanculo al cosmo e a tutti quanti gli Dei la notte mi sfugge, indifferente rischiara un’alba definitiva in un velluto d’aurora torna pure nell’ovvio il sipario ora cala sull’eco di una sola fottuta parola: sayonara!!!
Personalmente ho un debole per la fotografia impulsiva di La Fleur (ospite della rubrica Foto Sintesi che potrete trovare QUI) e mi viene da pensare lo covi anche l’eccelsa Elisa Giusto, la quale si è ispirata proprio ad un’immagine dell’artista piemontese per delineare una discesa poetica talmente ripida nell’esposizione da togliere il fiato e lasciare un graffito indelebile sul fianco dei treni che passano nelle vite degli innamorati. In questo vortice lessicale però, i passeggeri decidono di non salire sul vagone che li avrebbe convogliati verso una destinazione comune e il risultato di questa favola senza lieto fine ma assolutamente possibile è quello proprio di due foglie a forma di cuore che si seccano sotto un sole impietoso. Mi hanno fatto riflettere molto i versi centrali del poema “potrei avvicinarmi ma per difesa di anima fraintesa nei versi amo celarmi”, quindi espressione inversa, nascondiglio invece di disvelamento, implosione al posto di propagazione del sè. Un comportamento dai tratti prettamente femminili (ma non solo) che si sdoppia in due interpretazioni (nelle quali il possibile partner di solito sceglie quella sbagliata…), la prima è una sorta di recesso induttivo, ovvero che mira ad essere inseguito nella tana emotiva per “giocarsi la partita” in un territorio conosciuto e congeniale al soggetto scrivente. La seconda combacia con le parole vergate, ovvero si rinuncia veramente all’idillio proprio per paura di essere fraintesi e anche questo succede frequentemente nell’incontro tra soggetti che si attraggono e finiscono “a terra, stremati” con “la forma di chi ha saputo amare”. La Fleur e Elisa Giusto, un connubio struggente. Statemi in luce. (Filippo Fenara)
Con un solo – eccezionale – componimento, l’inarrivabile Biagina Danieli è riuscita a toccare simultaneamente due zone “erogene” della mia anima: l’amore puro e fedele che provo per Marco Pantani e il mio palese e cedevole attaccamento ai dialetti e alle parlate tradizionali del (una volta) Belpaese. Non mi sento di commentare più di tanto una poesia che suona come una chitarra acustica arpeggiata e spiega in pochi versi molto più di trent’anni di scuole, istituti ed università, pura cultura di strada che Biagina porta fieramente come vessillo del proprio modo di essere, del suo fiorire senza dimenticarsi delle radici, del suo struggente scrivere del popolo e per il popolo. Ed è molto complicato recensirla perchè quando le si traccia un confine attorno, lei, nella composizione successiva, l’ha già scavalcato, come ogni creatura che trova la libertà assoluta tra i versi. Godetevi questa rarità di Biagina Danieli e statemi in luce, anche quando la salita si fa ripida e sembra di non potercela fare. (Filippo Fenara)
ER PIRATA
“Eccolo, eccolo, s’è arzato, Biaggì, s’è arzato!”
In piedi in su la bbici, le mani in sù per manubbrio, n’occhio davanti e n’artro arretro.
Era partito, e nun ce ne stava più pe nessuno, na pedalata dopo n’artra, un metronomo, ammazza sembrava magnasselo l’asfarto.
Co la pioggia,cor freddo, cor callo, quanno je girava la brocca era n’amen.
La salita pareva na discesa. Macché volava!
Volavano pure i laccetti der fazzoletto che c’aveva in capo. E ssi, perché senza quer fazzoletto nun era lui, nun era er pirata, che rubbava metri e secondi a tutti, senza storce la bbocca.
“O vedi Biaggì, a vita è così, na strada de montagna bella irta, n’fazzoletto in testa, gambe bbone e n’secchio de sacrificio pe arrivà in cima. Nun te crede che er pirata nun sente la fatica, nun sente er dolore a le gambe, va avanti e bbasta. Ce crede!”
E c’aveva raggione.
Poi a n’certo punto la vita s’è magnato er pirata, er doping, a droga, l’invidia sopra a tutto ripetevi, nun c’hai mai creduto e quanno è morto, pe te, se n’è annato n’amico vero.
E pure pe me la stessa cosa, quarche vorta me rivedo na scalata e me commovo, a pensà a tte, ar pirata e alli tui inseggnamenti.
Ripubblico questa mia breve cosa che scrissi in memoria del grande MarcoPantani, nel Giugno dell’anno scorso, per stemperare l’attesa della Carta Carbone inerente lo splendido scritto “Er Pirata” della prodigiosa ed allo stesso tempo estremamente modesta e umana Biagina Danieli. Una chicca da non perdere scritta nella parlata romanesca, fuori alle 18:00. Statemi in sintonia. (Filippo Fenara)
ASFITTICO INGANNO
Domatore dell’impervio su destrieri di carbonio, stroncato dall’asfittico inganno del livore vestito a compassione.
C’è un celebre aforisma di Leonard Cohen che recita “C’è una crepa in ogni cosa. Ed è da lì che entra la luce”. Ecco, Sydan, secondo la mia percezione, è la proprietà commutativa del succitato aforisma: un guscio nel quale si apre lentamente una crepa dalla quale fuoriesce un chiarore in varie tonalità di colore e comunque sempre illuminato e illuminante. Questa “Senza Appigli” è un breve bagliore di cui è bello soffermarsi a scrutarne il ricamo logico e l’anticonformista palesare il diritto di “potersi fare male”, che in un contesto di mistificato e pericoloso assistenzialismo nel quale giacciamo come mosche in una ragnatela, esplica un significato molto potente e incisivo. Sfumature che non devono sfuggire nella lettura delle tracce di Sydan, che lentamente schiude l’involucro per propagare il fascio luminoso della sua anima. (Filippo Fenara)
Nelson Enrique Martinez aka N. Hardem, è un emsì che vive nel quartiere di Teusaquillo a Bogotà, in Colombia. Il rap in spagnolo trae le sue origini, come quello in italiano, tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 e questo rapper sudamericano mi ha fatto rendicontare con un sobbalzo i mostruosi passi avanti che l’idioma castillano rapportato al beat ha compiuto in trenta primavere. Le basi di “Verdor” sono minimaliste e sporche q.b. (nell’accezione più “duri e puri” del termine), la cosa che sconvolge è il quieto flusso lirico potenziato da formidabili e ritmici giochi di parole in metrica dei quali non risente la narrazione poetica di strada. Il tutto avvalorato da una timbrica vocale calda, placida e avvolgente. N. Hardem è un indubbio fuoriclasse del genere che sbiadisce i presunti confini tra storytelling, poesia, musica e comunicazione, questo suo ultimo lavoro, per maturità artistica e veridicità espressiva, merita un acquisto (io l’ho già portato a termine su Bandcamp, voi cosa aspettate?) e qui sta il punto. Sempre più musicisti ed artisti del suono nel circuito sotterraneo, visti gli scarsissimi guadagni procurati loro dalle piattaforme di streaming, aspettano mesi prima di cedere i loro ultimi album a queste casse di risonanza mass oriented, in modo da poter vendere su Bandcamp (decisamente più onesto nei loro confronti) vinili, cassette o formati digitali ascoltabili dal proprio telefono senza limitazioni oppure scaricabili. Io sostengo volentieri, per quel poco che posso, tanti amici artisti dello scrivere o del musicare perchè sì, tutti quei magnati magnaccia che intascano soldi con la creatività altrui in cambio di “visibilità” sono come la corazzata Potemkin per l’indimenticabile Fantozzi: una cagata pazzesca. Non rinuncerò mai al mio credo nell’autoproduzione, disintermediando l’arte da strozzini, personaggi miseri e speculatori bavosi, anche se trovo logico e maturo asserire che, sebbene in misura ormai esigua, tra editori, produttori e gestori di siti, a volte s’incontrino persone oneste che guadagnano il giusto senza tradire il proprio amore per le arti e la loro divulgazione, permettendo agli stessi artisti di proseguire il proprio percorso conducendo una vita quantomeno dignitosa. Fine della Feel Ippica. Come avrete intuito, l’album “Verdor” non è ancora presente nè su Spotify nè su YouTube (anche perchè ci sono i fenomeni che scaricano gli audio illegalmente mentre l’occhio vigile della Tubatura probabilmente sta ammirando i glutei di qualche avvenente Signorina), quindi vi estraggo dal cilindro un brano di N. Hardem del 2019 intitolato “Seiza”, inserisco il VHS nel videoregistratore e premo il pulsante della riproduzione. Estad en luz.
Chiudo l’articolo scusandomi se dovessero esserci molti refusi, purtroppo mi è esploso il seno rifatto mentre scrivevo ed ettolitri di silicone appiccicoso si sono riversati sulla tastiera rendendola quasi impraticabile come il campo dello stadio di Ascoli negli anni ’80. (Filippo Fenara)
Francesca, solo a pronunciarlo scroscia acqua fresca, introverso bocciolo da cui spuntano vispi occhi neri sempre in procinto di spiccare il volo, fammi un po’ di posto tra i tuoi pensieri che qui fuori, nello ieri di te, c’è tanto freddo e sguardi insinceri.
Francesca, detto di te suona diverso, faro erto e certo tra irruente mareggiate, onde arricciate attorno al disperso marinaio nella doppiezza di flutti d’un eterno Febbraio tra i quali scompaio, scura cometa d’ogni poeta solitario che grida “terra!” mentre si serra la tua bocca inanellando sorrisi di fulgida madreperla.
Francesca, accordo in maggiore, il suono migliore che a sentire la mia anima riesca.
Dedico questa “cosa” all’amica Francesca De Masi aka @inosservatapasso con innocente trasporto e senza alcuna malizia, femminea delizia che dell’imminente primavera è primizia. (Filippo Fenara)
Per cavalleria, dovrei prima prendermi cura delle Signore, ma credo che l’amica Maria Grazia Pellegrini mi perdonerà se comincio presentando, per quel poco che ho avuto tempo di conoscerlo (ma approfondirò senza dubbio), il pittore e poeta Norman Sgrò, di cui ho colto immediatamente la bontà del tratto e la maestria nell’utilizzo delle tonalità nei suoi dipinti (ovvio che vi inviti a seguirlo sul profilo Instagram) che hanno ispirato la lusinghiera e diabolica stesura di questa elegia dai toni cupi e solo apparentemente funebri. Un seducente passaggio lirico negli inferi aulici “Caduta”, un adescare anime innocenti per portarle tra i gironi della cedevolezza, il porre un tarlo, un dubbio, innescare il tentennamento tracotante nella scelta eterna tra purezza luminosa e tangibilità materiale, una roulette russa espressa con grande capacità lessicale da Maria Grazia Pellegrini che, in rappresentanza della lusinga, smonta la personalità del lettore senza scomporsi di fronte al conflitto che risiede in ogni essere umano senziente. Trovo questi versi come una cartina tornasole per interrogarsi una volta per tutte e, a differenza dei politicanti, fare una scelta definiva sulla parte con la quale schierarsi, evitando di sciupare la propria esistenza terrena nell’ignavia a cui la pandemica alessitimia costringe. Questa è molto di più di una poesia, questa è vita vera, scelta irrevocabile, verità. (Filippo Fenara)
Scendo giù nel blu del mio garage, vintage a la page, emo stage di bondage, lego il mio ego e vado al bar, un caffè corretto Cynar, fanno le star al Despar, smentiti dal VAR, avatar per lo Zar, folle di folli in gana de follar, prede feroci adescano Master Card, esche per pesche dai toni hard, ipotizzo Supercar, salgo su quello che valgo e volgo via di qua, in una città al di là della fattualità, iscritto ad un social monoprofilo che promuove l’inconciliabilità.
Mangiagli una mano…dobermann.
Arresi all’essere incompresi, rifiutati, offesi, protesi sul disguido, difettano di pregi, obbediscono al cattivo, perestrojka inversa come Gorbaciov, tutti chini in fellatio sulla canna del Kalashnikov, calabroni come Korsakov, spalano neve a Spalato e la pippano il Sabato prima d’incontrare lo psicologo, il prologo d’un colloquio prodigo di retorica da pokemon, inviano genitalità da macellaio attraverso l’iPhone.
Se telefonando io, procedessi al tuo riavvio.
Sindrome misantropica, sono graminaceo per l’ammassata massa celiaca, demoniaca maniacalità del “sé” che non c’è e mai si manifesta, perdono la testa, la ghigliottina non s’arresta, meglio un’onesta burberia indigesta che un’anima presta a prestarsi nei giorni di festa, molesta molestia, falsa modestia ai piedi della bestia.
Ce ne fossero di poetesse come Nadia Alberici. Per quelli come me, che hanno la “fissa” di trovare anime importanti impresse su pellicole virtuali per poi divulgarle nell’etere a fin di bene, cernire un componimento di Nadia Alberici è come pescare in un oceano sconfinato ricco di fauna aulica: pur rimanendo fedele alla sua innata finezza ed al suo stile incomparabile (che non vuole significare superiore o inferiore, ma unico e caratterizzante), affronta numerosi contenuti ed angolazioni di pensiero che rendono il suo repertorio vario ma uniforme ad altissima quota. “Furono Mesi In Cui” è una carezzevole lirica probabilmente ispirata dai lunghi periodi di lockdown, comunque è un canto alla solitudine che, da una premessa iniziale di dolorosa mancanza, si trasla nella parte centrale in un paragone, una caleidoscopica metafora floreale, uno schiudersi del ragionamento e dell’anima all’accettazione della realtà modellandola secondo occhi saggi e trasognanti. Il finale è un’epifania di amore che prende forma nell’iconico dittico “e cullai la solitudine come se fosse / una bambina trovata per strada”, versi che sfociano in una chiusa che sbriciola anche il cuore più coriaceo. Sottolineando la modesta gentilezza di Nadia Alberici devo ammettere che, leggendo questa gemma, mi sono sentito un alunno (discolo) ad una lezione d’amore. (Filippo Fenara)
Cambio di profondità di campo. In questo ultimo periodo la vena poetica di Alessandra ha lentamente spostato le sue scenografiche pulsioni auliche, dalla coronarografia sanguinea della propria interiorità è passata ad un autoscatto dove tutto ciò che è alle sue spalle risulta ormai sbiadito, diafano, al contrario di lei che appare a fuoco, rinvigorita da una nuova rinascita. Nel leggere i componimenti de @ilcircolodellepoetesse, mi sono reso conto che, probabilmente per connessione empatica, molte di loro stanno varcando il crinale della sofferenza per scrutare oltre ai propri dolori, al di là delle normali e numerose sconfitte che tempestano il percorso vitae di qualsiasi essere umano: tutto ciò è motivante e viene a sussurrare all’orecchio che la poesia è foriera anche di questo miracolo. “Cielo”, come ho appena accennato, è l’ennesimo gradino superato della poetessa conosciuta su Instagram (ma vi consiglio di visitarne il bellissimo blog) come @senzavoce.it in procinto di liberarsi di ricordi claustrofobici, scaduti, compulsivi, per poter avanzare verso un ignoto che si svela attraverso la lampada della conoscenza e del coraggio di andare avanti senza diventare schiavi di traguardi materialistici. Versi leggeri, che se qualche tempo fa richiamavano la visceralità malinconica del blues e di Janis Joplin, oggi ricordano di più le aperture d’archi di tanti brani dei Massive Attack, nel voler credere in un futuro celeste come il…cielo. (Filippo Fenara)
L’incontro tra Marianna Bindi e una ragazza disperata su un traghetto che naviga nelle acque del Mediterraneo. L’obiettivo percettivo agraduato dell’artista piemontese procede alla traguardazione e messa a fuoco con uno scatto estemporaneo che, poco dopo, trasmuta in versi armonicamente dissimmetrici, in ritagli di pensiero appiccicati come un collage a formare una stesura integra nella sua frammentarietà. Questa poesia è un ossimoro aforismatico, un coacervo di diapositive che solo apparentemente non hanno nulla in comune tra loro. La chiave di lettura è da ricercarsi nella proiezione recensoria in un bianco e nero ad alto contrasto da parte di Marianna Bindi nei confronti della ragazza incontrata, nella rilettura della situazione filtrata attraverso la propria personalità in un virtuosismo poetico di stampo egotista. Da umile appassionato d’arte moderna non posso non puntare un riflettore anche sulle astratte immagini elaborate dall’artista che accompagnano in un valzer emotivo le idealistiche poesie pubblicate. (Filippo Fenara)
NENIA DI INIZIO SETTEMBRE
Sul quel traghetto
sei una tomba d’acqua.
Sull’epigrafe scrivi Non m’amo in questa stanza.
Accendino, sigaretta, mare in pinna.
Cristallo a rompere sulle onde.
E cerco le parole giuste
ma sono allo stesso giogo. Soffrirai.
Allo specchio degli specchi,
rotto a cura di taglio,
riflette lo stesso abbaglio. Lo sbaglio sei tu.
Tre poesie da che lo conosco, tre Carte Carbone che ne vengono fuori. Lo Scribacchino è una gradita scoperta che dimostra di saper adattare il suo stile ai colori del suo arcobaleno emotivo. Si è cominciato con l’eclettica e futuristica “Teoria Dei Multiversi“, si è proseguito con l’intima e umana descrittività di “Irrorati Dal Sole” ed ora ci troviamo davanti un’allegro “tormentone” che tocca tutti i caratteri più scanzonati dell’estivo “tornare giù in Romagna” (personalmente, vivendo a Bologna, è stato un piacevole deja vu), un inno al divertimento, alle amicizie, agli amori stagionali, alla salsedine che propaga il caratteristico profumo dello stare bene. Semplice, spontanea e bella proprio per questo, terzo capitolo che disvela una versatilità poetica in divenire di questo, stupefacente, Scribacchino. (Filippo Fenara)
Come promesso, ecco a voi un’altra caramella poetica di Sydan: questa volta scrive di un amore giovane, spensierato, puro, senza la disillusione che si manifesta con l’affastellarsi delle delusioni lungo il corso della vita. Tra gli “spezzoni” che preferisco, tengo a sottolineare “compriamo tutto il Mc” e “ridiamo come se tutto fosse finito, piangiamo come se la vita fosse appena iniziata” due piccoli lampi di genio che invocano un sorriso accennato sulle labbra di coloro che hanno perso la leggerezza, il candore e la fiducia nel futuro strada facendo. (Filippo Fenara)
Non molto tempo fa ha fatto il suo esordio sulle carte carbone la poesia minimalista di Sydan aka @sydan.meni. Come allora, confermo che, pur essendo un tipo di comunicazione agli antipodi della poesia accademica o classica, leggendo i suoi pensieri continuo a provare un senso di spontanea immediatezza dall’effetto rinfrescante, percolante dai versi confidenziali e dalla bassa ambizione meramente esibizionistica. Sarà che a 48 anni, rivivere certi contesti e ragionamenti retaggio di generazioni successive alla mia funga da palliativo elisir, sarà la cristallina trasparenza e sincerità nel porgersi di Sydan, ma ammetto di aver maturato un debole per gli “shorts” di questa autrice e, oltre a pubblicarne un altro spumeggiante exploit alle 15 di oggi, covo il sentore che questa ragazza abbia qualcosa di embrionalmente speciale. (Filippo Fenara)
Una collab in latenza questa volta, dell’amica poetessa con la quale vivo una comunione d’anime, Francesca De Masi aka @inosservatapasso. Trovando un interessante spunto nella mia precedente “Polisemia Idilliaca Scoscesa”, ha forgiato una replica della quale ho apprezzato molto la saggezza, la volontà di ricostruzione di un amore apparentemente reciso in maniera definitiva dalla mia chiusa “Amarti è imparare a perderti in ogni momento” alla quale Francesca si è “agganciata” con i primi suoi versi “Imparare a perderti senza lasciarti”. Io dico sempre che “in poesia è tutto concesso”, purtroppo nella realtà questa mentalità di riparare gli strappi relazionali è andata svanendo, attualmente anche i rapporti sentimentali sono preda del mercimonio consumista anche se, fortunatamente, c’è qualche persona che serba ancora fiducia nel prossimo e che, almeno in questo caso, inosservata non passa. (Filippo Fenara)
Leggerezza ed impalpabile malinconia in questo componimento di Nonna Pitilla che produce un’immagine tuttavia dolce, assertiva e paziente del freddo che attanaglia le nostre vite durante la stagione invernale. Eppure, scorrendo lo scritto, non trapela sensazione di fastidio o disagio, piuttosto “arrivano” vampate avvolgenti di versi che, frammentandoli e isolandoli, sarebbero già autonomamente poesie, diapositive imparziali che fondono la sensazione e il susseguente stato d’animo cristallizzato in parole morbide, suadenti, lievi. “Questo Freddo” riesce, in realtà, a fungere da calda coperta nella quale proteggersi dai capricci dell’inverno, infondendo calore e placida attesa di “un lieve soffio di vento o un rosso o un giallo” che allontani la malinconia. Con la raccomandazione di visitare e seguire il blog di Nonna Pitilla, vi prego di attendere per poter stare in luce…sotto un sole di Maggio. (Filippo Fenara)
QUESTO FREDDO
comincia nel cuore questo freddo, arrivato d’improvviso, senza bussare alla porta con discrezione si accoccola ai miei piedi e pretende di arrivare ai miei pensieri, con insistenza, decisione
impotente, stanca e senza desideri lo lascio vagare sulla mia pelle, giocare con le mie labbra, sfiorare i miei occhi
pur sempre un amico che arriva quando meno lo vorrei, è un amico un compagno di tempi che si succedono e che non vogliono mai allontanarsi del tutto
lo temo e mi fa compagnia, gela le malinconie e i pianti, tramuntando le lacrime in cristalli salati, lasciando la pelle tirata che potrebbe spezzarsi al primo movimento
gli occhi mi dolgono, hanno dentro piccole punte di ghiaccio che impediscono loro il sonno e il riposo, come cime innevate che il sole non vuole scaldare
avvolgimi malinconia con un panno colorato e culla un corpo che ha bisogno di fuoco
a volte accade che la malinconia si faccia uccello e mi racchiuda fra le sue ali, ma basta un lieve soffio di vento o un rosso o un giallo ad allontanarla da me