Senza farlo apposta, sono ricaduto nella musica canadese. Le Black Dresses sono due ragazze, Ada Rook e Devi McCallion, conosciutesi inizialmente su Twitter e giunte al loro quinto lavoro di noise pop (per rendere meglio l’idea, uno sviluppo in proiezione del genere varato da Marilyn Manson) che mi ha “costretto” ad un azzeccato acquisto del loro ultimo album “Forever In Your Heart” una chicca zuccherosa e aspra allo stesso tempo, un misto di acustico ed elettronico piallati dai distorsori e cosparso di eccezionali liriche di stampo LGBT e femminista. Proprio le tematiche trattate dalle due musiciste hanno portato allo scioglimento temporaneo della band nel Maggio 2020, a causa delle minacce e delle molestie subite da Devi McCallion: le Black Dresses non si sono date per vinte e, lavorando nell’ombra, hanno dato alla luce (?), quest’ultimo “Forever In Your Heart”, annunciandolo in rete giusto mezz’ora prima della pubblicazione. Mafie vs Black Dresses 0 – 1. Che dire? Questo è un disco non convenzionale, non ancora screditato sulle piattaforme streaming, una miscellanea tra punk, gothicrock, pop, noise ed elettronica che introduce in un clima di sofferta e potente musicalità non conformata, con testi molto espliciti e politicamente scorretti, tanto da infrangere la quiete virtuale e di facciata di un mondo decadente, intollerante, violento. Consigliandovene fortemente l’acquisto, calo la puntina del giradischi su un pezzo estratto da uno dei loro precedenti LP, così che possiate farvi un’idea del genere e decidere di spendere qualche euretto su Bandcamp…vero? Statemi in luce. (Filippo Fenara)
Nel suo fresco excursus poetico, Lo Scribacchino continua a piacermi per la costanza e la continuità di prestazione ad alta quota. Oltre all’abile maneggiare e modellare un vocabolario ampio ma scevro di forbitismi da primadonna e falsi intellettualismi da collezionisti di premi da concorsi e contests inadeguati al fine, scende con sorsate di latticina poesia, nutriente per l’anima e di bianco candore agli occhi del lettore, adatta ai bambini, propedeutica ad una crescita emotiva sulla strada maestra del sentire universale. In questa poesia che ho voluto intitolare “La Chiave”, Lo Scribacchino impersonifica il passaggio tra i rigori dell’inverno e le infiorescenze della primavera, immagina il suo corpo nel bucolico boato della rinascita e lo fa “infiorando” la propria immagine che, come sta succedendo in questi giorni, “ha trovato la chiave” per uscire dalla gabbia del freddo e di panorami ammantati di neve ed ora è in procinto di fiorire. Raffinatissimo il riferimento allo “zefiro” che, per chi non lo sapesse, è un mite vento primaverile di ponente simile proprio ad un sussurro. Un inno alla mitigata grandezza della stagione che precede l’estate, al rinnovato miracolo della vita che esce dal letargo per ripetersi nei cicli astrali che si perpetuano nel tempo. Non conosco le finalità di questo giovane scrittore, so esclusivamente che mi piace leggerlo, seguirlo e diffonderne le delicate composizioni a quante più anime possa, conscio di un cristallino talento che lo conduce oltre le nuvole. Statemi in luce. (Filippo Fenara)
Meno per meno fa più, lo dico da fallito in un sistema fallito dal quale esco insignito del premio di consolazione.
M’accollo il tracollo del capitalismo in ammollo fino al collo “sembra cacca ma non è” come Pollon col colon infiammato.
Verso vino in brick sul coniglio che si ridesta, m’assesta una testata e mi dà un consiglio: sto diserbante vallo a dare al figlio che non concepisci perché tieni sempre il gingillo in scompiglio, capisci?
Non so scrivere sulla mia faccia, la Bic non lascia traccia, la Dea Kalì m’abbraccia in quanto magnaccia e pure puta e checchè al bar se ne discuta, la maxillografia non mi è mai piaciuta.
Giada è una nuova graditissima ospite nelle Carte Carbone alla quale ho deciso di dedicare un po’ del mio tempo perchè ho trovato qualcosa di stuzzicante nel suo scrivere, versi rarefatti ma incisivi, desueta palesazione dei contenuti, talento in essere. Ma cominciamo dallo pseudonimo: “@trionfoavolte” che considero un colpo di genio per l’impasto artigianale di fierezza nella vittoria piena con la farinosa abitudine alla sconfitta che, nella vita, prima o poi tutti dobbiamo accettare. Voto 1000 su 10. La rinascita attraverso l’iconica storia di Cartagine, l’alternare sensazioni personali con constatazioni oggettive storiche, l’incorporarsi in un segmento temporale illimitato costituito da morte e resurrezione, pare un voler sottolineare le dinamiche che coinvolgono non solo i singoli individui ma, in questo preciso periodo, tutta l’umanità. Lo stile scrittorio di Giada è ordinato ed asciutto, quasi a voler essere sentenziante attraverso formule poetico/matematiche, miscela con disinvoltura dati oggettivi e sentori quasi esoterici, l’impalpabile con il certo. Questo stupisce perchè rivela un’intelligenza emotiva ferrea che si riversa in parole come colonne di un tempio sacro, ci si trova la grandezza e la modestia, il TRIONFO del comunicarsi che purtroppo, fisiologicamente, A VOLTE finisce nella didattica sconfitta del non essere compresi. Poi, come Qart Hadasht, si rinasce e si scrive un’altra, splendida, poesia. (Filippo Fenara)
Conoscendo ormai la signorilità di Claudio Picchedda, non credo si scomponga se ho ritrovato in questi suoi accessibili versi un parallelismo (non un confronto, che in poesia non può esistere) con “Poesia” di Elisa Giusto aka @riemersa, ripubblicata ieri nella versione recitata da Francesca De Masi aka @inosservatapasso. Un assioma, un manifesto, una minuzia grandiosa quella di @cpbacco, quasi come un padre che trova le parole perfette per spiegare al figlio cos’è la poesia, l’appurata limpidezza comunicativa di questo autore non deve essere assolutamente sottovalutata, è una rara e straordinaria dote congenita che permette di convogliare il messaggio oltre la mera materialità del fine, dell’interesse, della carne destinata a dissolversi. Poi, in quanto alla bontà e genuinità dei contenuti non nutro nessun dubbio nei confronti di Claudio Picchedda, certamente come poeta, ma soprattutto come uomo, figlio della natura che regola i ritmi circadiani dell’oggi protratto all’infinito. Per tornare a discorsi più terreni, consiglio di seguirne il costante flusso creativo che, per qualità energetica trovo anche troppo costretto tra le regole lottizzanti di Instagram e dei vari social lager. Il suo messaggio dentro una bottiglia di trasparente e pregiato cristallo merita una eco perpetua. Statemi in luce. (Filippo Fenara)
Al di là della persona molto educatamente riservata che si anima dietro lo pseudonimo di Maia, trovo straordinario il personaggio palesato sul profilo Instagram: c’è geniale ironia, c’è un costante humus aulico d’alta quota, c’è sentimento, genio e trasgressione (un’accezione di “sregolatezza” su misura di questa artista), ci sono risate e momenti di riflessione, c’è commozione davanti all’innocenza della natura, c’è alterigia femminina e carezze consolatorie, alti e bassi, è vero, ma piace così com’è. C’è un’ape con il debole per il vino e a volte un po’ burbera, ma con un cuore dolce ed una traiettoria di volo verso la tranquillità della luna ed il bagliore delle stelle, c’è amore che cola come miele senza essere troppo autoreferenziale, sebbene una lettura distratta potrebbe portare ad interpretazioni errate. Come esempio presento questa “Sostanze Stupefacenti”, dove il confine tra le esperienze personali di Maia e l’universalità del romantico messaggio sembra svanire, tant’è che è facilissimo e calzante calarsi nella voce narrante di questi versi. Tra le tante eccellenze di Maia, in questo caso mi piace evidenziarne l’originalità lessicale che infrange le “regole” della poesia classica e l’impatto emotivo condensato in una manciata di parole, tutte con un potere ipnotico considerevole. Una delle tante ammirevoli elegie di Maia, che m’induce a pensare che l’unica maniera di resisterle è farsi legare all’albero maestro dell’imbarcazione come Ulisse, altrimenti si rischierebbe fortemente d’innamorarsi. Di un’ape. Regina. (Filippo Fenara)
Facciamo un distinguo: chi è Sonic Area? Sonic Area è uno dei progetti di un produttore, dj, ingegnere del suono, remixer di Strasburgo (come i superlativi Lemming Suicide Myth di cui ho scritto QUI. Ma che città è Strasburgo? Ci devo andare prestissimo…) che di pseudonimo fa Arco Trauma, all’anagrafe meglio conosciuto come Arnaud Coëffic. Ha collaborato con grandissimi nomi della musica (non commerciale) mondiale ed è membro effettivo dei celeberrimi Tamboures Du Bronx, mentre porta avanti numerosi progetti paralleli tutti accomunati dal flavour per un’elettronica d’elite che sembra fare riferimento solo vagamente ai Kraftwerk nel concepimento dei brani più industriali, ma che si affranca da qualsiasi confronto o similitudine in una sorta di emancipazione creativa ad alto coinvolgimento emotivo e sonoro. Tutti i suoi lavori, pur cavalcando l’onda digitale, sono molto diversi ed io ho scelto questo fantasmagorico “Eternalism” da presentarvi per i suoi suoni robotici ed industriali e la tribale ritmicità dei tappeti di beats autentici e coinvolgenti. Sono oramai mesi che m’inoculo massicce dosi di questo album, sebbene tutta la produzione dell’artista francese meriti attenzione, per ora vi schiaffo sull’articolo una delle due tracce che mi piacerebbe ascoltaste con la giusta atmosfera meditativa. Questa è “Once More Unto The Breach Dear Friends”, imperial electro feels…
Lo so, potrebbe risultare un po’ indigesto per i non cultori del genere, ma il mio credo vuole che le menti siano aperte ad ogni novità, suono, immagine e messaggio, detesto il pensiero comune trascendente da centri di potere mediatico che falciano milioni di anime con la lama del nulla inadeguato, pur essendo loro stessi risorgive di vuoto ed ignoranza senza fondo. Ricostruiamoci con la prossima impronta dal titolo singolare di “The Soul Of a Robot”, dopo tireremo le somme.
“Where is a soul? In the mind”, agghiacciante per quanto cinicamente vero. Ragazzi, questi sono i Sonic Area, il lasciapassare per il circuito stampato del vostro subconscio, lo spirito tradotto in bits, l’essenziale che diventa olistico e ci catapulta nella massificazione minimalista di noi stessi. Credo di avervi dato una buona dritta. Statemi in luce. (Filippo Fenara)
Onestamente, questa volta, non so cosa scrivere di Manuela Di Dalmazi. Ho già detto tanto di lei, della sua crescita esponenziale, della sua piumata gentilezza, del suo saper narrare di eros come di dinamiche di dissenso sociale con la stessa, ficcante, maestria. Secondo me è una delle poche persone che vive già nel futuro del proprio presente, che sale verso la cima cosciente da dove è partita, che mostra le sue molteplici sfaccettature in una personalità integra e contemporaneamente complessa. Questa “Tramonto In Te” è una splendida flambata d’eros che preannuncia il suo prossimo lavoro “Vietato L’ingresso Ai Non Addetti All’amore” che, dalle anteprime, dà l’idea di essere un vero e proprio masterpiece dell’italica poesia. Parole rarefatte che hanno il potere erotico per destabilizzare qualsiasi anima sensibile, riferimenti bucolici che arroventano l’atmosfera in un battito di ciglia, il gioco più peccaminoso del quale Manuela Di Dalmazi traccia contorni netti e li colora di rosso fuoco, come quello che arde nelle sue arterie. Perchè guardare il grande fratello o il telegiornale in televisione quando ci sono persone in grado di regalarvi emozioni vere e non fictions parruccate? Statemi in dubbio. (Filippo Fenara)
Dopo un estemporaneo scambio in chat con lei dove affermavo che il “lato oscuro” di ogni persona è ovviamente quello più intrigante e attrattivo, la Eli ha deciso di scendere in versi con questo full d’assi lirico che mi ha gustato come uno shottino di rum e kahlua buttato giù tutto d’un fiato. La Eli la conosciamo per la sua incredibile forza comunicativa, per l’imperiosità con la quale dispone le sue simmetriche logiche emotive in diagrammi a flusso verticali ed anche in questa occasione non si è smentita: spiovono temporalesche le sue parole dove rimane in sospeso tra il mascherare e lo smascherare il suo “lato oscuro” alimentando la curiosità, innescando dinamiche di desiderio iperaccentuate, dicendo ma non dicendo. Maestria e marketing sentimentale, non conosco personalmente la Eli, ma mi si perdoni il termine, dà l’impressione di una persona che “sa vendersi bene”, probabilmente per ancestrali eredità dell’essere meneghino o la sensuale intelligenza emotiva che la poetessa milanese emana. Poche parole ma un senso compiuto evidente, per tener celata, ancora una volta, la sua “metà oscura”. Statemi nella tenebra. (Filippo Fenara)
Il ritorno, oramai settimanale, di Ettore Massarese tra le Carte Carbone, arriva in nome della “modestia” e della “grandezza”, sulle quali abbiamo avuto un veloce scambio di vedute tra i commenti della poesia che, a breve, avrete il piacere di leggere. Il mio punto di vista è che l’una prescinde dall’altra ed essendo l’artista partenopeo una persona dall’eccezionale modestia, lo considero a maggior ragione un grande uomo e poeta, al di là del suo curriculum, della sua posizione sociale e dell’oggettiva qualità tecnica che lo contraddistingue. In questa “Fata” è facile ravvisare il profumo salmastro che si propaga nei vicoli del capoluogo campano, ci si ricongiunge ai meandri della contraddittoria ma irrinunciabile quotidianità di Napoli, il tutto seguendo il filo di una narrazione idilliaca che il dialetto rende ancora più passionale e verace. Un assioma perfetto nella sua mitigata aulicità popolare, un manifesto in onore di tutte le donne che non sfigurerebbe come leit motiv non solo l’otto Marzo, ma ogni santo giorno che la Vergine Maria manda in terra. Mi sono subito affezionato a questo sinuoso componimento, ci sento le radici e la chioma, il cielo e la terra, il desiderio e il sentimento, la modestia e la…grandezza di Ettore Massarese. (Filippo Fenara)
Il titolo “graffio” l’ho scelto io, sulla base di una personale valutazione estetica: se guardate da lontano la poesia di LeeLoo, vi accorgerete che non ci sono versi lunghi anzi, la narrazione risulta essere spezzettata in parole lottizzate in capoversi continui, come a formare una perpendicolare espositiva. Un graffio sull’anima. Uno sfregio subito dalla poetessa di sede a Londra del quale, per orgoglio e dignità, sembra evitare di mostrarne le conseguenze interiori. Che ci sono, e si sentono sottotraccia. Una delusione, un tradimento, un sopruso, verso il quale LeeLoo vuole mostrarsi imperturbabile e irriverentemente non ferita – “porgo la gota rigata” – ma che, probabilmente, è arrivato inaspettato e, con il cuore ipertrofico per il quale conosciamo l’artista, brucia sotto quel velo di “asettica” caduta. Mi ricorda il titolo del libro di Oriana Fallaci “La Rabbia e L’orgoglio” dove i due sentimenti si confrontano alacremente sotto il glaciale pack del polo poetico dell’elegia senza riemergere prima di essersi stemperati nel tempo e nella mitigazione del focoso e passionale animo di LeeLoo. Di questa traccia mi scalda la preponderante sentimentalità dell’autrice nascosta dietro un dito ben costruito di matura diplomazia e ricerca del riallaccio e della risoluzione del conflitto. Lo ammetto: quello che mi ha sempre ispirato di questa scrittrice è la capacita di trasformare il lume di una candela in un pirotecnico erudere di lapilli interiori dei quali, anche se celati, ne ravviso il magmatico ardere. (Filippo Fenara)
GRAFFIO
In caduta
asettica,
soffio
spiragli
in dissonanza
sulle note
dell’essere.
Allacciata
la corda
del tempo
porgo
la gota
rigata,
graffio
e piega,
segno
del mio
vivere.
Dall’ultima “Cielo”, cartacarbonata giusto la settimana passata, qualcosa si è incrinato, e il flusso di Alessandra scende in un dissing nemmeno troppo dissimulato, un punteruolo da ghiaccio che s’infilza nella carne viva del suo target, si abbatte liricamente come un predatore su un obiettivo dal destino oramai segnato, una vittima predestinata. Tengo a fare una necessaria precisazione che eviti problemi che in passato ho pagato, secondo me, ingiustamente: io, abituato alle “battles” di rap fin dalla prima adolescenza dove mi confrontavo con altri b-boys in strada in uno scambio di offese (spesso alle rispettive ed incolpevoli mamme) che si concludevano con un abbraccio, una birretta e la buonanotte, considero i dissing come forma aritstica che si oppone alle violenze vere e proprie esorcizzandole, non è mia intenzione fomentare qualsivoglia conflitto personale o sociale e mi schiero per la risoluzione pacifica dei contrasti. Però “Fame” scende cattiva, perentoria e risoluta. A livello letterario è una falce che non lascia scampo pur non utilizzando termini volgari, è esempio di compattezza senza fronzoli, una sentenza della cassazione che non concede repliche. Un’insieme di enunciati recisivi come “eccitando lo spasmo dell’ombra” o “fugge, fallita l’estorsione di pietà” che descrivono una persona subdola, viscida nel suo ostentare “il sonno dei tormenti” per destare interesse e conquistare visibilità e credibilità. Vi consiglio di guardare il reel di @senzavoce.it con la greve canzone di Marilyn Manson cliccando QUI, nella speranza che le diatribe si risolvano dopo un catartico sfogo non violento e la ricerca della sintonia nei confronti del prossimo. (Filippo Fenara)
Era da tempo che anelavo ad una collaborazione con il “groovy” Francesco Minichini ed è successo in maniera atemporale per volontà coincidenti al di fuori dello spazio e del tempo: scrissi difatti una cosa intitolata “Hikikomori” tempo fa, ed ho ritrovato il bandolo della matassa in questo tagliente sfregio d’anima del “compagno di merende” Jodelaki che ha suggellato il suo scritto con lo stesso titolo. Ma non è tanto l’intestazione a fare da denominatore comune, quanto il pensiero desocializzante che impernia i due scritti, la quieta mascolinità disidentificata da una società nella quale adattarsi corrisponde a soccombere. Credo che sia per Filippo che per Francesco l’autoesilio venga manifestato come un diritto inalienabile, in un sistema che vorrebbe recluderci tramite il peggio e la vacuità morale dentro “soffocanti” recinti digitali chiamati paradossalmente “social networks”, all’interno di banali frasi fatte che nascondono una sleale ipocrisia di massa, mentre il mondo “reale” sta per essere coercitivamente sgomberato come se ogni essere umano non avesse gli stessi diritti (o meglio, privilegi) dei suinidi oligarchi e dei loro turpi servitori. Mentre la mia cosa è più simile ad un cactus che con le sue spine tende a tenere a distanza chiunque, il flusso di Jodelaki è più interiorizzato, anche se di facile lettura in “presa diretta”. Non so in quanti leggeranno queste due scariche elettriche, ma sono certo che chi lo farà troverà un senso nuovo nello smembramento di uno status quo suicida per spianare la strada alla nuova era. Strizzo l’occhio a Francesco Minichini e vi auguro di stare in luce. (Filippo Fenara)
Ringraziamo dal profondo del cuore il lavoro grafico di Francesca De Masi aka @inosservatapasso che rappresenta sè stessa donando il suo tempo e non perdendosi in false promesse o chiacchiere senza valore alcuno.
Non so nulla – giustamente – di come procede la sua vita privata, è da un po’ però che ravviso un picco d’ispirazione nello scrivere di Ilaria e mi chiedo se il suo esprimersi combaci con il suo viversi quotidianamente. Pura curiosità esegetica. Fatto sta che le sue parole vanno oltre la semiotica, diventano icone, accentramenti di senso e di sensi, questa “Sole Padrone” è paradigmatica nel suo imbocco iniziale semplice e diretto, come la corsia d’accelerazione di un’autostrada che dirige verso un mondo più onirico, costituito dalla mancanza di angeli “disposti a scostare gli scarti dei tuoi sospiri”, un “sole padrone” accerchiato come il totem di una tribù indiana e l’impavido “bruciare la fiamma”. In questa breve poesia di Ilaria, ho trovato l’aforisma ineluttabile e la dissonanza jazz, un voler imprimere calchi d’anima bypassando il labor limae, l’impulso slam poetry, la freschezza e il surreale che s’alternano rievocando (ovviamente con tutta la modestia che il paragone merita) alcune tecniche cinematografiche di David Lynch e del periodo “pulp”. Leggetela ma soprattutto seguite Ilaria sul profilo Instagram, ho il sospetto che il segreto di questo suo “momento magico” sia il non rendersene completamente conto. Statemi in luce. (Filippo Fenara)
Non poteva mancare la parlata popolare dell’alto mantovano (come specifica Alessandro Gianesini) ad arricchire le pagine di Le Mie Cose dei colori e suoni dei dialetti italiani. Il mio blog svaria a centrocampo tra rap colombiano, poesia classica, neologismi, racconti e vernacoli, sono indagato per il reato di “coacervo tematico” ma giuro di essere innocente, un giorno vi spiegherò il denominatore comune tra tutte queste discipline che qualcuno vorrebbe frammentare in minuscole briciole di niente. Non mi dilungo ulteriormente perchè l’articolo di Alessandro Gianesini è già completo di tutto, audio, testo, accordi e traduzione, ed anche sotto il lockdown più rosso sarà comunque possibile scavalcare i confini dei social per visitare il suo sito (del quale vi lascio i links in calce) “Alessandro Gianesini – Lo Scribacchino Del Web”, uno tra i più ricchi di contenuti di valore che si sedimentano nell’anima, al contrario della sozzeria inesistente dei mass media. Ora allegria con “El Pensiunat”, statemi in luce!!! (Filippo Fenara)
Ecco il secondo dei tre brani tradotti dal dialetto dell’alto mantovano (che non lo si chiami dialetto mantovano, o i cittadini si incazzano come delle iene, quelle dell’Arca del brano scorso), stavolta a tematica sociale.
Per chi si diletta a suonare, ci sono pure gli accordi!
El pensiunàt Il pensionato
Fa#m Re Fa#m Re
L’è trent’an che so en pensiù dop quaranta de laurà Sono trent’anni che sono in pensione dopo quaranta di lavoro
Fa#m Re La Mi
L’è ‘na gran sudisfasiù, fo na vita de pascià È una grande soddisfazione, faccio una vita da pascià
Töt i dè g’ò quel de fa, fo la fila dal dutùr Tutti i giorni ho qualcosa da fare, faccio la fila dal dottore
Perde gnanca ‘n füneràl, vo al simitere a cambia i fiùr Non mi perdo nemmeno un funerale, vado al cimitero a cambiare i fiori
Re Do# Fa#m Si
Cos’è la vita, te naset, te creset, te spuset, t’engraset Cos’è la vita, nasci, cresci, ti sposi, t’ingrassi
Re Mi Fa#m
E po te spetet, te speret che ries el dè de nà ‘n pensiù E poi aspetti, speri che arrivi il giorno di andare in pensione
E finalmente desvonte le ante che i è inchiculente E finalmente pulisco le ante che sono luride
Fo quel che öle, adès poche bale, cumanda el vintidù! Faccio quel che voglio, adesso poche balle, comanda il ventidue (probabilmente riferito alla classe, ndr)
Merculdè Radio Maria, ma el giuedè me vo al mercà. Mercoledì Radio Maria, ma giovedì vado al mercato (giorno del mercato a Castel Goffredo, paese d’origine del gruppo, ndr)
Po vo al bar a bèer en bianc, quasi quasi en bèe dù Poi vado al bar a bere un bianco, quasi quasi ne bevo due
Me fo da apò en boero, l’è na vita de sbalù Mi faccio dare anche un boero, è una vita da sballone
Cos’è la vita, te naset, te creset, te spuset, t’engraset Cos’è la vita, nasci, cresci, ti sposi, t’ingrassi
E po te spetet, te spere che ries el dè de nà ‘n pensiù E poi aspetti, speri che arrivi il giorno di andare in pensione
Ma veramente finìt co le ante g’ò pö de fa niente Ma veramente finito con le ante non ho più niente da fare
Vaca galèra, che ria pö sera, so drè a nà ‘n depresiù! Vacca galera, qui non arriva più sera, sto andando in depressione!
G’ò tre fiöi che i è n’amore, i m’à gnanca stracagàt Ho tre figli che sono un amore, non mi cagano nemmeno di striscio
I speta apena che me möre per ciücàs l’eredità! Aspettano solo che io muoia per beccarsi l’eredità
Ma i neùcc i me öl bè, i me ciàa la dentiera Ma i nipoti mi vogliono bene, mi fregano la dentiera
I me cagà en del bidè, g’ò mess al mond di disgrasiacc! Fan la cacca nel bidet, ho messo al mondo dei disgraziati!
Cos’è la vita, te naset, te creset, te spuset, t’engraset Cos’è la vita, nasci, cresci, ti sposi, t’ingrassi
E po te spetet, te spere che ries el dè de nà ‘n pensiù E poi aspetti, speri che arrivi il giorno di andare in pensione
G’ò tre palanche ma ghe do mia niente ai parencc, chi bröi cancher Ho tre soldini ma non do niente ai parenti, quei brutti cancheri
Se anche ghe sonte, me töle la badante, me maie föra töt! Se anche ci rimetto, mi prendo la badante, mi mangio fuori tutto!
Le ‘na bionda strepitusa, quand andòm en söl mercà È una bionda strepitosa, quando andiamo sul mercato
Töcc i omm i la sgulusa, i è invidiùs cumpagn di cà! Tutti gli uomini la sgolosano, sono invidiosi come dei cani!
E la not gh’è mia pö freno, ni e cuntòm le barselete E la notte non c’è freno, ci raccontiamo le barzellette
Me en dialèt le en ceceno, e so vodka a butigliù! Io in dialetto e lei in ceceno, e giù vodka a bottiglioni!
Cos’è la vita, te naset, te creset, te spuset, t’engraset Cos’è la vita, nasci, cresci, ti sposi, t’ingrassi
E po te spetet, te spere che ries el dè de nà ‘n pensiù E poi aspetti, speri che arrivi il giorno di andare in pensione
Sicüramente se sie pö pimpante me sucedìa niente Sicuramente se ero più pimpante non mi succedeva niente
So riàt al dunque, g’ò vist le müdande e me gnìt un infartù! Sono arrivato al dunque, le ho visto le mutande e mi è venuto un infarto!
Anche stavolta non mancano alcuni riferimenti territoriali, come il giorno di mercato del paese e altre piccole cose secondarie, ma credo che questa canzone possa essere esportabile in tutto il territorio nazionale per la sua valenza culturale!
Articolo originale e traduzione in italiano di Alessandro Gianesini
Pensandoti, m’esilio dal tempo coincidimi oltre il dissenso affacciati sul tuo mancarmi sbagliami se non puoi indovinarmi.
Spiegami io non so capirmi e tacimi se non sai che dirmi… la tua vanità pronuncia l’addio salpando, fendo l’oblio.
In nome di tutte le gocce di brina lungo lo stelo di questa mattina per Dio, non sono se tu non mi sei allora, fanculo al cosmo e a tutti quanti gli Dei la notte mi sfugge, indifferente rischiara un’alba definitiva in un velluto d’aurora torna pure nell’ovvio il sipario ora cala sull’eco di una sola fottuta parola: sayonara!!!
Personalmente ho un debole per la fotografia impulsiva di La Fleur (ospite della rubrica Foto Sintesi che potrete trovare QUI) e mi viene da pensare lo covi anche l’eccelsa Elisa Giusto, la quale si è ispirata proprio ad un’immagine dell’artista piemontese per delineare una discesa poetica talmente ripida nell’esposizione da togliere il fiato e lasciare un graffito indelebile sul fianco dei treni che passano nelle vite degli innamorati. In questo vortice lessicale però, i passeggeri decidono di non salire sul vagone che li avrebbe convogliati verso una destinazione comune e il risultato di questa favola senza lieto fine ma assolutamente possibile è quello proprio di due foglie a forma di cuore che si seccano sotto un sole impietoso. Mi hanno fatto riflettere molto i versi centrali del poema “potrei avvicinarmi ma per difesa di anima fraintesa nei versi amo celarmi”, quindi espressione inversa, nascondiglio invece di disvelamento, implosione al posto di propagazione del sè. Un comportamento dai tratti prettamente femminili (ma non solo) che si sdoppia in due interpretazioni (nelle quali il possibile partner di solito sceglie quella sbagliata…), la prima è una sorta di recesso induttivo, ovvero che mira ad essere inseguito nella tana emotiva per “giocarsi la partita” in un territorio conosciuto e congeniale al soggetto scrivente. La seconda combacia con le parole vergate, ovvero si rinuncia veramente all’idillio proprio per paura di essere fraintesi e anche questo succede frequentemente nell’incontro tra soggetti che si attraggono e finiscono “a terra, stremati” con “la forma di chi ha saputo amare”. La Fleur e Elisa Giusto, un connubio struggente. Statemi in luce. (Filippo Fenara)
Con un solo – eccezionale – componimento, l’inarrivabile Biagina Danieli è riuscita a toccare simultaneamente due zone “erogene” della mia anima: l’amore puro e fedele che provo per Marco Pantani e il mio palese e cedevole attaccamento ai dialetti e alle parlate tradizionali del (una volta) Belpaese. Non mi sento di commentare più di tanto una poesia che suona come una chitarra acustica arpeggiata e spiega in pochi versi molto più di trent’anni di scuole, istituti ed università, pura cultura di strada che Biagina porta fieramente come vessillo del proprio modo di essere, del suo fiorire senza dimenticarsi delle radici, del suo struggente scrivere del popolo e per il popolo. Ed è molto complicato recensirla perchè quando le si traccia un confine attorno, lei, nella composizione successiva, l’ha già scavalcato, come ogni creatura che trova la libertà assoluta tra i versi. Godetevi questa rarità di Biagina Danieli e statemi in luce, anche quando la salita si fa ripida e sembra di non potercela fare. (Filippo Fenara)
ER PIRATA
“Eccolo, eccolo, s’è arzato, Biaggì, s’è arzato!”
In piedi in su la bbici, le mani in sù per manubbrio, n’occhio davanti e n’artro arretro.
Era partito, e nun ce ne stava più pe nessuno, na pedalata dopo n’artra, un metronomo, ammazza sembrava magnasselo l’asfarto.
Co la pioggia,cor freddo, cor callo, quanno je girava la brocca era n’amen.
La salita pareva na discesa. Macché volava!
Volavano pure i laccetti der fazzoletto che c’aveva in capo. E ssi, perché senza quer fazzoletto nun era lui, nun era er pirata, che rubbava metri e secondi a tutti, senza storce la bbocca.
“O vedi Biaggì, a vita è così, na strada de montagna bella irta, n’fazzoletto in testa, gambe bbone e n’secchio de sacrificio pe arrivà in cima. Nun te crede che er pirata nun sente la fatica, nun sente er dolore a le gambe, va avanti e bbasta. Ce crede!”
E c’aveva raggione.
Poi a n’certo punto la vita s’è magnato er pirata, er doping, a droga, l’invidia sopra a tutto ripetevi, nun c’hai mai creduto e quanno è morto, pe te, se n’è annato n’amico vero.
E pure pe me la stessa cosa, quarche vorta me rivedo na scalata e me commovo, a pensà a tte, ar pirata e alli tui inseggnamenti.
Ripubblico questa mia breve cosa che scrissi in memoria del grande MarcoPantani, nel Giugno dell’anno scorso, per stemperare l’attesa della Carta Carbone inerente lo splendido scritto “Er Pirata” della prodigiosa ed allo stesso tempo estremamente modesta e umana Biagina Danieli. Una chicca da non perdere scritta nella parlata romanesca, fuori alle 18:00. Statemi in sintonia. (Filippo Fenara)
ASFITTICO INGANNO
Domatore dell’impervio su destrieri di carbonio, stroncato dall’asfittico inganno del livore vestito a compassione.
C’è un celebre aforisma di Leonard Cohen che recita “C’è una crepa in ogni cosa. Ed è da lì che entra la luce”. Ecco, Sydan, secondo la mia percezione, è la proprietà commutativa del succitato aforisma: un guscio nel quale si apre lentamente una crepa dalla quale fuoriesce un chiarore in varie tonalità di colore e comunque sempre illuminato e illuminante. Questa “Senza Appigli” è un breve bagliore di cui è bello soffermarsi a scrutarne il ricamo logico e l’anticonformista palesare il diritto di “potersi fare male”, che in un contesto di mistificato e pericoloso assistenzialismo nel quale giacciamo come mosche in una ragnatela, esplica un significato molto potente e incisivo. Sfumature che non devono sfuggire nella lettura delle tracce di Sydan, che lentamente schiude l’involucro per propagare il fascio luminoso della sua anima. (Filippo Fenara)
Nelson Enrique Martinez aka N. Hardem, è un emsì che vive nel quartiere di Teusaquillo a Bogotà, in Colombia. Il rap in spagnolo trae le sue origini, come quello in italiano, tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 e questo rapper sudamericano mi ha fatto rendicontare con un sobbalzo i mostruosi passi avanti che l’idioma castillano rapportato al beat ha compiuto in trenta primavere. Le basi di “Verdor” sono minimaliste e sporche q.b. (nell’accezione più “duri e puri” del termine), la cosa che sconvolge è il quieto flusso lirico potenziato da formidabili e ritmici giochi di parole in metrica dei quali non risente la narrazione poetica di strada. Il tutto avvalorato da una timbrica vocale calda, placida e avvolgente. N. Hardem è un indubbio fuoriclasse del genere che sbiadisce i presunti confini tra storytelling, poesia, musica e comunicazione, questo suo ultimo lavoro, per maturità artistica e veridicità espressiva, merita un acquisto (io l’ho già portato a termine su Bandcamp, voi cosa aspettate?) e qui sta il punto. Sempre più musicisti ed artisti del suono nel circuito sotterraneo, visti gli scarsissimi guadagni procurati loro dalle piattaforme di streaming, aspettano mesi prima di cedere i loro ultimi album a queste casse di risonanza mass oriented, in modo da poter vendere su Bandcamp (decisamente più onesto nei loro confronti) vinili, cassette o formati digitali ascoltabili dal proprio telefono senza limitazioni oppure scaricabili. Io sostengo volentieri, per quel poco che posso, tanti amici artisti dello scrivere o del musicare perchè sì, tutti quei magnati magnaccia che intascano soldi con la creatività altrui in cambio di “visibilità” sono come la corazzata Potemkin per l’indimenticabile Fantozzi: una cagata pazzesca. Non rinuncerò mai al mio credo nell’autoproduzione, disintermediando l’arte da strozzini, personaggi miseri e speculatori bavosi, anche se trovo logico e maturo asserire che, sebbene in misura ormai esigua, tra editori, produttori e gestori di siti, a volte s’incontrino persone oneste che guadagnano il giusto senza tradire il proprio amore per le arti e la loro divulgazione, permettendo agli stessi artisti di proseguire il proprio percorso conducendo una vita quantomeno dignitosa. Fine della Feel Ippica. Come avrete intuito, l’album “Verdor” non è ancora presente nè su Spotify nè su YouTube (anche perchè ci sono i fenomeni che scaricano gli audio illegalmente mentre l’occhio vigile della Tubatura probabilmente sta ammirando i glutei di qualche avvenente Signorina), quindi vi estraggo dal cilindro un brano di N. Hardem del 2019 intitolato “Seiza”, inserisco il VHS nel videoregistratore e premo il pulsante della riproduzione. Estad en luz.
Chiudo l’articolo scusandomi se dovessero esserci molti refusi, purtroppo mi è esploso il seno rifatto mentre scrivevo ed ettolitri di silicone appiccicoso si sono riversati sulla tastiera rendendola quasi impraticabile come il campo dello stadio di Ascoli negli anni ’80. (Filippo Fenara)
Francesca, solo a pronunciarlo scroscia acqua fresca, introverso bocciolo da cui spuntano vispi occhi neri sempre in procinto di spiccare il volo, fammi un po’ di posto tra i tuoi pensieri che qui fuori, nello ieri di te, c’è tanto freddo e sguardi insinceri.
Francesca, detto di te suona diverso, faro erto e certo tra irruente mareggiate, onde arricciate attorno al disperso marinaio nella doppiezza di flutti d’un eterno Febbraio tra i quali scompaio, scura cometa d’ogni poeta solitario che grida “terra!” mentre si serra la tua bocca inanellando sorrisi di fulgida madreperla.
Francesca, accordo in maggiore, il suono migliore che a sentire la mia anima riesca.
Dedico questa “cosa” all’amica Francesca De Masi aka @inosservatapasso con innocente trasporto e senza alcuna malizia, femminea delizia che dell’imminente primavera è primizia. (Filippo Fenara)
Per cavalleria, dovrei prima prendermi cura delle Signore, ma credo che l’amica Maria Grazia Pellegrini mi perdonerà se comincio presentando, per quel poco che ho avuto tempo di conoscerlo (ma approfondirò senza dubbio), il pittore e poeta Norman Sgrò, di cui ho colto immediatamente la bontà del tratto e la maestria nell’utilizzo delle tonalità nei suoi dipinti (ovvio che vi inviti a seguirlo sul profilo Instagram) che hanno ispirato la lusinghiera e diabolica stesura di questa elegia dai toni cupi e solo apparentemente funebri. Un seducente passaggio lirico negli inferi aulici “Caduta”, un adescare anime innocenti per portarle tra i gironi della cedevolezza, il porre un tarlo, un dubbio, innescare il tentennamento tracotante nella scelta eterna tra purezza luminosa e tangibilità materiale, una roulette russa espressa con grande capacità lessicale da Maria Grazia Pellegrini che, in rappresentanza della lusinga, smonta la personalità del lettore senza scomporsi di fronte al conflitto che risiede in ogni essere umano senziente. Trovo questi versi come una cartina tornasole per interrogarsi una volta per tutte e, a differenza dei politicanti, fare una scelta definiva sulla parte con la quale schierarsi, evitando di sciupare la propria esistenza terrena nell’ignavia a cui la pandemica alessitimia costringe. Questa è molto di più di una poesia, questa è vita vera, scelta irrevocabile, verità. (Filippo Fenara)
Scendo giù nel blu del mio garage, vintage a la page, emo stage di bondage, lego il mio ego e vado al bar, un caffè corretto Cynar, fanno le star al Despar, smentiti dal VAR, avatar per lo Zar, folle di folli in gana de follar, prede feroci adescano Master Card, esche per pesche dai toni hard, ipotizzo Supercar, salgo su quello che valgo e volgo via di qua, in una città al di là della fattualità, iscritto ad un social monoprofilo che promuove l’inconciliabilità.
Mangiagli una mano…dobermann.
Arresi all’essere incompresi, rifiutati, offesi, protesi sul disguido, difettano di pregi, obbediscono al cattivo, perestrojka inversa come Gorbaciov, tutti chini in fellatio sulla canna del Kalashnikov, calabroni come Korsakov, spalano neve a Spalato e la pippano il Sabato prima d’incontrare lo psicologo, il prologo d’un colloquio prodigo di retorica da pokemon, inviano genitalità da macellaio attraverso l’iPhone.
Se telefonando io, procedessi al tuo riavvio.
Sindrome misantropica, sono graminaceo per l’ammassata massa celiaca, demoniaca maniacalità del “sé” che non c’è e mai si manifesta, perdono la testa, la ghigliottina non s’arresta, meglio un’onesta burberia indigesta che un’anima presta a prestarsi nei giorni di festa, molesta molestia, falsa modestia ai piedi della bestia.
Ce ne fossero di poetesse come Nadia Alberici. Per quelli come me, che hanno la “fissa” di trovare anime importanti impresse su pellicole virtuali per poi divulgarle nell’etere a fin di bene, cernire un componimento di Nadia Alberici è come pescare in un oceano sconfinato ricco di fauna aulica: pur rimanendo fedele alla sua innata finezza ed al suo stile incomparabile (che non vuole significare superiore o inferiore, ma unico e caratterizzante), affronta numerosi contenuti ed angolazioni di pensiero che rendono il suo repertorio vario ma uniforme ad altissima quota. “Furono Mesi In Cui” è una carezzevole lirica probabilmente ispirata dai lunghi periodi di lockdown, comunque è un canto alla solitudine che, da una premessa iniziale di dolorosa mancanza, si trasla nella parte centrale in un paragone, una caleidoscopica metafora floreale, uno schiudersi del ragionamento e dell’anima all’accettazione della realtà modellandola secondo occhi saggi e trasognanti. Il finale è un’epifania di amore che prende forma nell’iconico dittico “e cullai la solitudine come se fosse / una bambina trovata per strada”, versi che sfociano in una chiusa che sbriciola anche il cuore più coriaceo. Sottolineando la modesta gentilezza di Nadia Alberici devo ammettere che, leggendo questa gemma, mi sono sentito un alunno (discolo) ad una lezione d’amore. (Filippo Fenara)