Vi dico subito che troverete parolacce, minacce, insulti. Rabbia gratuita e cruda, sangue, oggetti in frantumi, grida, ferite, maledizioni. Ma ne uscirete con un sorriso. Certo, la violenza come esorcismo didattico della stessa rientra nelle innumerevoli qualità stilistiche di Roberto Gianesini, la cui tecnica narrativa è fuori discussione, vi state approssimando ad una rapida che travolge e restituisce a sè stessi nuovi di zecca, due minuti di trattamento lirico d’urto catartizzante. Oltre a risultarvi pesante – ma è per la vostra salvezza intellettuale e spirituale – indicandovi metaforicamente – ma non troppo – la luna piena di sorprese del suo blog linkato in calce, vi suggerisco altresì di cliccare QUI per conoscere le novità editoriali dell’autore mantovano in procinto d’essere pubblicate. Statemi calmi e…in luce! (Filippo Fenara)
LA RABBIA
«Cos’hai da guardare, ah? Tutte le mattine, alla stessa ora ti trovo qui con quella tua faccia da idiota che mi guardi come se non avessi capito un cazzo della vita: ma chi ti credi di essere? E poi che cazzo ridi quando ti parlo? Una volta o l’altra ti pianto un pugno su quel naso, che nemmeno tua madre ti riconoscerà quando avrò finito. Niente, allora non capisci! Ti devi levare dalle palle, non mi interessa chi sei o cosa fai: non voglio più rivedere il tuo brutto muso. Fuori dai coglioni, sciò! Guarda, ora mi sto davvero innervosendo, se hai qualcosa da dire, dillo e in fretta, perché io sono una persona calma, pacata e tutto il resto, ma quando uno mi prende di mira come stai facendo tu, allora divento una bestia e mi incazzo sul serio. Credo che nessuno mi abbia mai visto davvero incazzato, e tu potresti essere il primo: che culo! Però non so se dopo sarai in grado di andare a dirlo in giro, sai? Servirà la scopa e la paletta per raccogliere tutti i pezzi di quel tuo faccione di merda che ti ritrovi. Mi dici che cazzo vuoi dalla mia vita? Me lo stracazzo dici una buona volta? No, non mi piace la tua faccia, non mi piace come mi guardi e non mi piace come ridi di me, perciò ora ne ho davvero pieni i coglioni: o ti levi, o ti spacco la faccia… e non è una minaccia. Vedi? Mi sto tirando su le maniche: ti conviene iniziare a scappare finché sei in tempo, o questa è l’ultima volta che vedranno in giro, pezzo di merda! Allora l’hai voluto tu…»
Il sangue gocciolava dalla mano. Lo specchio era a terra, in frantumi.
Non poteva mancare la parlata popolare dell’alto mantovano (come specifica Alessandro Gianesini) ad arricchire le pagine di Le Mie Cose dei colori e suoni dei dialetti italiani. Il mio blog svaria a centrocampo tra rap colombiano, poesia classica, neologismi, racconti e vernacoli, sono indagato per il reato di “coacervo tematico” ma giuro di essere innocente, un giorno vi spiegherò il denominatore comune tra tutte queste discipline che qualcuno vorrebbe frammentare in minuscole briciole di niente. Non mi dilungo ulteriormente perchè l’articolo di Alessandro Gianesini è già completo di tutto, audio, testo, accordi e traduzione, ed anche sotto il lockdown più rosso sarà comunque possibile scavalcare i confini dei social per visitare il suo sito (del quale vi lascio i links in calce) “Alessandro Gianesini – Lo Scribacchino Del Web”, uno tra i più ricchi di contenuti di valore che si sedimentano nell’anima, al contrario della sozzeria inesistente dei mass media. Ora allegria con “El Pensiunat”, statemi in luce!!! (Filippo Fenara)
Ecco il secondo dei tre brani tradotti dal dialetto dell’alto mantovano (che non lo si chiami dialetto mantovano, o i cittadini si incazzano come delle iene, quelle dell’Arca del brano scorso), stavolta a tematica sociale.
Per chi si diletta a suonare, ci sono pure gli accordi!
El pensiunàt Il pensionato
Fa#m Re Fa#m Re
L’è trent’an che so en pensiù dop quaranta de laurà Sono trent’anni che sono in pensione dopo quaranta di lavoro
Fa#m Re La Mi
L’è ‘na gran sudisfasiù, fo na vita de pascià È una grande soddisfazione, faccio una vita da pascià
Töt i dè g’ò quel de fa, fo la fila dal dutùr Tutti i giorni ho qualcosa da fare, faccio la fila dal dottore
Perde gnanca ‘n füneràl, vo al simitere a cambia i fiùr Non mi perdo nemmeno un funerale, vado al cimitero a cambiare i fiori
Re Do# Fa#m Si
Cos’è la vita, te naset, te creset, te spuset, t’engraset Cos’è la vita, nasci, cresci, ti sposi, t’ingrassi
Re Mi Fa#m
E po te spetet, te speret che ries el dè de nà ‘n pensiù E poi aspetti, speri che arrivi il giorno di andare in pensione
E finalmente desvonte le ante che i è inchiculente E finalmente pulisco le ante che sono luride
Fo quel che öle, adès poche bale, cumanda el vintidù! Faccio quel che voglio, adesso poche balle, comanda il ventidue (probabilmente riferito alla classe, ndr)
Merculdè Radio Maria, ma el giuedè me vo al mercà. Mercoledì Radio Maria, ma giovedì vado al mercato (giorno del mercato a Castel Goffredo, paese d’origine del gruppo, ndr)
Po vo al bar a bèer en bianc, quasi quasi en bèe dù Poi vado al bar a bere un bianco, quasi quasi ne bevo due
Me fo da apò en boero, l’è na vita de sbalù Mi faccio dare anche un boero, è una vita da sballone
Cos’è la vita, te naset, te creset, te spuset, t’engraset Cos’è la vita, nasci, cresci, ti sposi, t’ingrassi
E po te spetet, te spere che ries el dè de nà ‘n pensiù E poi aspetti, speri che arrivi il giorno di andare in pensione
Ma veramente finìt co le ante g’ò pö de fa niente Ma veramente finito con le ante non ho più niente da fare
Vaca galèra, che ria pö sera, so drè a nà ‘n depresiù! Vacca galera, qui non arriva più sera, sto andando in depressione!
G’ò tre fiöi che i è n’amore, i m’à gnanca stracagàt Ho tre figli che sono un amore, non mi cagano nemmeno di striscio
I speta apena che me möre per ciücàs l’eredità! Aspettano solo che io muoia per beccarsi l’eredità
Ma i neùcc i me öl bè, i me ciàa la dentiera Ma i nipoti mi vogliono bene, mi fregano la dentiera
I me cagà en del bidè, g’ò mess al mond di disgrasiacc! Fan la cacca nel bidet, ho messo al mondo dei disgraziati!
Cos’è la vita, te naset, te creset, te spuset, t’engraset Cos’è la vita, nasci, cresci, ti sposi, t’ingrassi
E po te spetet, te spere che ries el dè de nà ‘n pensiù E poi aspetti, speri che arrivi il giorno di andare in pensione
G’ò tre palanche ma ghe do mia niente ai parencc, chi bröi cancher Ho tre soldini ma non do niente ai parenti, quei brutti cancheri
Se anche ghe sonte, me töle la badante, me maie föra töt! Se anche ci rimetto, mi prendo la badante, mi mangio fuori tutto!
Le ‘na bionda strepitusa, quand andòm en söl mercà È una bionda strepitosa, quando andiamo sul mercato
Töcc i omm i la sgulusa, i è invidiùs cumpagn di cà! Tutti gli uomini la sgolosano, sono invidiosi come dei cani!
E la not gh’è mia pö freno, ni e cuntòm le barselete E la notte non c’è freno, ci raccontiamo le barzellette
Me en dialèt le en ceceno, e so vodka a butigliù! Io in dialetto e lei in ceceno, e giù vodka a bottiglioni!
Cos’è la vita, te naset, te creset, te spuset, t’engraset Cos’è la vita, nasci, cresci, ti sposi, t’ingrassi
E po te spetet, te spere che ries el dè de nà ‘n pensiù E poi aspetti, speri che arrivi il giorno di andare in pensione
Sicüramente se sie pö pimpante me sucedìa niente Sicuramente se ero più pimpante non mi succedeva niente
So riàt al dunque, g’ò vist le müdande e me gnìt un infartù! Sono arrivato al dunque, le ho visto le mutande e mi è venuto un infarto!
Anche stavolta non mancano alcuni riferimenti territoriali, come il giorno di mercato del paese e altre piccole cose secondarie, ma credo che questa canzone possa essere esportabile in tutto il territorio nazionale per la sua valenza culturale!
Articolo originale e traduzione in italiano di Alessandro Gianesini
Era dal 6 Gennaio che mi ero impigliato nell’ipnotica cronaca del pensiero di questo racconto, lo leggevo e rileggevo quasi intimidito dal virtuoso flusso lessicale di Alessandro Gianesini. Perchè la verità è che, in questo caso, non credo che l’autore abbia bisogno della modesta diffusione che, con tutto il gratuito impegno che ci metto, posso offrire ai suoi componimenti. È l’esatto contrario, per cui lo ringrazio per la gentile concessione di questo suo pezzo che utilizzerò per fare in modo che la delizia di questa lettura non sia solo un mio profondo piacere, ma un nutrimento per le anime umiliate dai contenuti miseri della comunicazione di consumo o intrattenimento. Mi prendo solo la libertà di pubblicare, prima del componimento, un brano di Chet Baker che ho sentito fin da subito abbinato all’atmosfera uggiosa di questo sentimento in lettere. (Filippo Fenara)
IN UNA SERA DI PIOGGIA
Che bello essere qui, circondato da vetro da un lato e… boh, dall’altro chi lo sa che mischiume archetipizzato sarà? Per fortuna, appena oltre, c’è la pioggia che scende battente e il tintinnare trapanante giunge pur da sopra, dove rivettate lamiere impediscono che mi percoli il fresco liquido sulla testa e, com’è solito accadere in cotante occasioni, giù per la nuca, il coppino, a refrigerare bollenti spiriti che d’ebollizione han solo sparuta memoria e nella pentola che mette pressione alla vita ne sono usciti sfilacciati e stopposi. La pioggia, dunque, elemento naturale che raccatta tutto lo sporco che incontra nel suo scivolare lungo il cielo, piano inclinato verso il baratro del mondo, piatto e circondato da possenti mura ghiacciate, affinché non ci affossiamo ancor più in profondità nell’abisso null’entropico.
Luci che sfrecciano, scie bianche su asfalti scuri, rugosi e piagati dal peso dell’esistenza breve che li ha voluti dove sono: sono quelle che mi ricordano che c’è morte oltre la vita, così come c’è luce oltre al buio di interiora nutriesche e nutrienti, esposte al ludibrio di gazze fameliche e cornacchie arroganti.
Passanti sperduti su strade dritte e senza svincoli chiedono lumi, ma le stelle e la luna sono coperte da coltri oscure e invisibili nel buio della sera e non posso certo indicare la via per la grotta e la greppia, destinazione di codesti magi moderni, che senza gps non distinguono una cometa da un’artefatta luminaria. Eppur li irrido, ingiungendo di proseguir dritto fino alla prossima curva e poi spetterà a loro sceglier come continuare, se adeguarsi alla strada, o restare coerenti al mio dire.
La notte s’appressa, le palpebre s’appesantiscono, la vita non germina in questo pantano bituminoso e tetro, che si mette in mostra solo se additato dai feroci led che minacciano col loro puro candore l’eresia del resto del mondo.
Applausi scrosciano… No, m’inganno! È sempre la pioggia a simular persone viventi tutt’intorno, col suo scalpiccio indefesso. Io sorrido amaro al monte, negro per la notte avviluppante e tenebrosa, pronta a esser solcata da saggine cavalcate da bellissime megere recanti doni, sogni, incubi e tutto quel che si può desiderare in una sera di pioggia.
Per un uomo, mettersi nei panni di una donna, è quantomeno complesso. Merito dell’esperto e talentuoso Alessandro Gianesini il riuscire a calarsi addirittura nel senso estetico femminile in un breve racconto che vi terrà incollati allo schermo, con una capacità d’empatia logica sottotraccia notevole e la costruzione di un contesto immaginario più reale della realtà quotidiana. Vi lascio a questa perla augurandovi una buona serata.
ROUTINE
Non so chi me lo fa fare di passare tutte le mattine mezzora davanti allo specchio, solo per andare in ufficio, dove i colleghi spettegolano sulle altre impiegate e il capo nemmeno sa se esisto, se non quando devo chiamare qualche cliente per spostare o annullare un appuntamento. Certo, è bello, sì. Anzi: ha fascino, che è pure meglio in un certo senso, ma non mi va certo di flirtare con lui, che poi, se mi sentissi rifiutata, perderei quel poco di autostima che ancora mi resta. E diverrei lo zimbello dell’azienda.
Di certo non gli piace quell’oca della mia collega, quella che si crede ancora giovane, ma ormai ne ha quaranta suonati, anche se dice di averne trentadue. Lei sì che si trucca, quasi che fosse sempre sabato sera! Però non si accorge di cosa le dicono alle spalle gli operai e i magazzinieri. E poi dove crede di andare conciata così? Al massimo può farsi una sveltina con il commerciale di turno? Che schifo: io nemmeno a vent’anni ero così svergognata.
La cosa certa è che mi faccio bella per lui: una volta apprezzava questa mia abitudine di curare l’aspetto e sembrare qualche anno più giovane di quanto dica la carta d’identità, ma ora, invece, è come se questo trucco non funzionasse più e ai suoi occhi io resto sempre quella che esce dal letto che condividiamo, anche se ormai si può dire che è solo per dormire.
Lo faccio forse per me? No, non credo proprio: me ne starei a letto più che volentieri qualche minuto in più, ma ormai, se non passo un po’ di tempo a restaurare un volto segnato dagli anni, forse mi chiederebbero i documenti prima di entrare. E se poi il capo avesse bisogno? Ah, no: non ci provo certo io, ma non vorrei mai che lui…
Dovrei dirglielo? Dovrei fargli presente che così non si può andare avanti, con un uomo che nemmeno mi si fila più, se non quando c’è da andare accompagnati da qualche parte?
No, non credo: io faccio di tutto per tenermi quel poco che è rimasto dal mio passato, con due gambe che ancora fan girare gli uomini, ma un seno che ormai ha bisogno di un aiutino per star su. Non che lo metta in mostra, perché non è nel mio stile, ma non voglio nemmeno che riveli che i cinquanta sono già suonati da un pezzo.
Perché mi trucco? Perché resto con lui? Perché faccio tutto questo?
Sì, in effetti è solo perché cambiare non è nelle mie corde, io sono una donna che ha sempre accettato quel che ha offerto la vita, senza mai voler guardare oltre il proprio orticello, godendosi la semplicità delle piccole cose. Ora, però, quelle piccole cose si sono consumate e non resta che polvere, da nascondere sotto il tappeto di un trucco che mi fa sentire qualcosa in più di quel che sono diventata e un po’ meno banale di quel che mi son sempre sentita.
La routine mi ammazzerà di noia, forse, ma io lì mi sento sicura, mi sento in grado di operare la mia piccola magia quotidiana e alla sera, anche se lui mi rivolge a stento uno sguardo e preferisce guardarsi una partita con un bionda in mano, questo a me sta bene: in fondo non è un cattivo uomo, è solo un altro di quelli che la vita ha schiacciato sotto un macigno di nulla e che ora non è più in grado di riprendersi.
Oggi ho deciso di truccarmi meglio, di usare un po’ di rossetto rosso, un po’ di matita e forse potrei anche mettermi il tailleur, quello elegante che mi arriva appena sopra al ginocchio. E anche le scarpe, quelle col tacco più fine…
Voglio provare a dedicare una giornata a me stessa, invece che continuare a sopravvivere: non sarà un vero e proprio cambiamento, forse, ma magari, così mi potrò togliere qualche piccola soddisfazione e capire, alla fin fine, perché mi trucco.