L’archistar del vocabolo. Del concetto. Della proiezione poliedrica del senso, anamnesi compressa del sentimento. Marianna Bindi non astrae il contenuto, in questo caso la solitudine, ma estrapola sè stessa dal contesto per ridefinirlo con una certa propensione progettuale, geometrica, ingegneristica. Come ho già ribadito in altre carte carbone sulla poetessa biellese, ogni suo componimento è innanzi tutto un’installazione artistica tangibile, una scultura moderna dove i “blanks” hanno forse più importanza delle parole esplicitate, l’emozione non è diretta, passionale, travolgente, ma la si deve evocare accarezzando con lo sguardo gli spigoli lessicali, gli apici acuminati, le facce lisce dipinte di fosforescente stupore, i pertugi dove l’anima di Marianna Bindi s’incunea trovandovi rifugio, un’anima elettrica, un’opera figlia dello spavento. Solo trovando la giusta chiave di lettura si può accedere al cuore sensibile e fervido del poema, scavalcando un imponente bastione difensivo di lessico spinato per riuscire a scorgere i contorni di una fulva bambina che, con le matite colorate, scrive poesie per concedere il perdono alla sè stessa adulta. (Filippo Fenara)
Soli
pelle a pelle
dell’animale.Per l’ossatura
enciclopedica
del cervello,
un vello armonico
di felicità.
Ma questa sala
d’aspetto è gelida
coi suoi mille
schermi puntati
a telecomando
sullo stesso canale.
E ci si sente.
Disarcionati, nell’attesa.
Da questa stanza,
non si esce mai.