…e fu così che, ispirata da uno dei meravigliosi scatti estemporanei della piemontese @la_fleur_66, la veneta @riemersa scrisse un “manifesto” sulla poesia descrivendone il soffio leggero che trapassa l’anima di tutti coloro che la scrivono o ne fruiscono attraverso la lettura e che infine, la campana @inosservatapasso, spontaneamente, per spirito collaborativo e collettivista, decise di recitare con la sua dizione elegante e dalla timbrica calda in un video ipnotico capace di proiettare in un mondo fiabesco. Vedete amici lettori, in un Italia completamente frammentata nemmeno per campanili, ma addirittura per individuo, queste tre artiste hanno dato il “la” per quello che auspico sarà il futuro, delineato dalla voglia di sentirsi parte di un sentimento unico attraverso la creatività, l’arte e l’amore verso il prossimo. Nel video sottostante è raggrumata tanta bellezza ed infinita buona volontà che ora dovremo riuscire a liberare dai recinti spinati dei social attraverso un allargamento di vedute e la capacità di sfuggire alle canalizzazioni coercitive della rete che paiono essere il prossimo nodo da sciogliere. (Filippo Fenara)
Non conosco ancora bene Acus. Ho appena dato una scorsa al suo profilo Instagram e ne ho tratto un’immediata sensazione positiva: innanzi tutto non è uno di quegli autori che parla solo d’amore e di abbandono, molte delle sue liriche vertono sul sociale, con una lettura lucida e non estremista dei problemi che affliggono lo status quo attuale poi, tecnicamente, mostra un suo personale stile molto equilibrato e facilmente fruibile, con l’eleganza del verso e l’assenza di inutili orpelli che ne intaccherebbero la lineare e fluida logica. Ovviamente, per cogliere il mood di Acus è necessario calarsi nel suo repertorio attraverso il suo profilo Instagram, cosa che vi consiglio di fare, mentre con qualche carta carbone cercherò di aperitivizzarvene la conoscenza. A Bologna, quando qualcuno ha qualche dote creativa o logica sopra la media si dice che “ha dello sbuzzo”: ecco, a pelle direi che questo autore ha proprio dello sbuzzo, sarà il tempo a farcene apprezzare i risultati sotto forma di versi fuori dalla media, per ora leggetevi questa lirica emblematica dei tempi che stiamo vivendo. (Filippo Fenara)
Onestamente, questa volta, non so cosa scrivere di Manuela Di Dalmazi. Ho già detto tanto di lei, della sua crescita esponenziale, della sua piumata gentilezza, del suo saper narrare di eros come di dinamiche di dissenso sociale con la stessa, ficcante, maestria. Secondo me è una delle poche persone che vive già nel futuro del proprio presente, che sale verso la cima cosciente da dove è partita, che mostra le sue molteplici sfaccettature in una personalità integra e contemporaneamente complessa. Questa “Tramonto In Te” è una splendida flambata d’eros che preannuncia il suo prossimo lavoro “Vietato L’ingresso Ai Non Addetti All’amore” che, dalle anteprime, dà l’idea di essere un vero e proprio masterpiece dell’italica poesia. Parole rarefatte che hanno il potere erotico per destabilizzare qualsiasi anima sensibile, riferimenti bucolici che arroventano l’atmosfera in un battito di ciglia, il gioco più peccaminoso del quale Manuela Di Dalmazi traccia contorni netti e li colora di rosso fuoco, come quello che arde nelle sue arterie. Perchè guardare il grande fratello o il telegiornale in televisione quando ci sono persone in grado di regalarvi emozioni vere e non fictions parruccate? Statemi in dubbio. (Filippo Fenara)
Dopo un estemporaneo scambio in chat con lei dove affermavo che il “lato oscuro” di ogni persona è ovviamente quello più intrigante e attrattivo, la Eli ha deciso di scendere in versi con questo full d’assi lirico che mi ha gustato come uno shottino di rum e kahlua buttato giù tutto d’un fiato. La Eli la conosciamo per la sua incredibile forza comunicativa, per l’imperiosità con la quale dispone le sue simmetriche logiche emotive in diagrammi a flusso verticali ed anche in questa occasione non si è smentita: spiovono temporalesche le sue parole dove rimane in sospeso tra il mascherare e lo smascherare il suo “lato oscuro” alimentando la curiosità, innescando dinamiche di desiderio iperaccentuate, dicendo ma non dicendo. Maestria e marketing sentimentale, non conosco personalmente la Eli, ma mi si perdoni il termine, dà l’impressione di una persona che “sa vendersi bene”, probabilmente per ancestrali eredità dell’essere meneghino o la sensuale intelligenza emotiva che la poetessa milanese emana. Poche parole ma un senso compiuto evidente, per tener celata, ancora una volta, la sua “metà oscura”. Statemi nella tenebra. (Filippo Fenara)
Dopo un involontario cut off durato qualche mese, ho la fortuna di reincontrare la poesia inaspettata di Veronica Annunziata in una reazione ad un periodo di silenzio digitale. Ho sempre asserito che @phoenisia, quando vuole, ha un potere espressivo senza pari, diretto, urbano, viscerale e d’impatto. Questa poesia riporta una scrittura “di pancia” filtrata dal suo elevato skill culturale, ogni verso è un potenziale aforisma, ogni parola racchiude sofferenza e sogno, amore e distacco: unico e raro è lo stile che caratterizza la poetessa partenopea nello sciorinare nettari lessicali che deliziano gli occhi del lettore come “ed io non riesco più a creare un abbraccio che ti includa in me” e “diverrei lampo che t’attraversi di luce”, brensi stratagemmi dialettici che secernono intrigo, passione, logos a braccetto col ludos. Dopo questa raggiante re entry, mi aspetto il solito volo ad alta quota di Veronica, in una continuità che delizia i nostri cuori istruendoli a nuove modalità di passione e comunione. Rimani in luce @phoenisia, ti vogliamo così. (Filippo Fenara)
SENZA TITOLO
Strappato il mio cielo di carta
cadute le mie braccia
come rami inerti
ed io non riesco più a creare un abbraccio che ti includa in me
Il ritorno, oramai settimanale, di Ettore Massarese tra le Carte Carbone, arriva in nome della “modestia” e della “grandezza”, sulle quali abbiamo avuto un veloce scambio di vedute tra i commenti della poesia che, a breve, avrete il piacere di leggere. Il mio punto di vista è che l’una prescinde dall’altra ed essendo l’artista partenopeo una persona dall’eccezionale modestia, lo considero a maggior ragione un grande uomo e poeta, al di là del suo curriculum, della sua posizione sociale e dell’oggettiva qualità tecnica che lo contraddistingue. In questa “Fata” è facile ravvisare il profumo salmastro che si propaga nei vicoli del capoluogo campano, ci si ricongiunge ai meandri della contraddittoria ma irrinunciabile quotidianità di Napoli, il tutto seguendo il filo di una narrazione idilliaca che il dialetto rende ancora più passionale e verace. Un assioma perfetto nella sua mitigata aulicità popolare, un manifesto in onore di tutte le donne che non sfigurerebbe come leit motiv non solo l’otto Marzo, ma ogni santo giorno che la Vergine Maria manda in terra. Mi sono subito affezionato a questo sinuoso componimento, ci sento le radici e la chioma, il cielo e la terra, il desiderio e il sentimento, la modestia e la…grandezza di Ettore Massarese. (Filippo Fenara)
Il titolo “graffio” l’ho scelto io, sulla base di una personale valutazione estetica: se guardate da lontano la poesia di LeeLoo, vi accorgerete che non ci sono versi lunghi anzi, la narrazione risulta essere spezzettata in parole lottizzate in capoversi continui, come a formare una perpendicolare espositiva. Un graffio sull’anima. Uno sfregio subito dalla poetessa di sede a Londra del quale, per orgoglio e dignità, sembra evitare di mostrarne le conseguenze interiori. Che ci sono, e si sentono sottotraccia. Una delusione, un tradimento, un sopruso, verso il quale LeeLoo vuole mostrarsi imperturbabile e irriverentemente non ferita – “porgo la gota rigata” – ma che, probabilmente, è arrivato inaspettato e, con il cuore ipertrofico per il quale conosciamo l’artista, brucia sotto quel velo di “asettica” caduta. Mi ricorda il titolo del libro di Oriana Fallaci “La Rabbia e L’orgoglio” dove i due sentimenti si confrontano alacremente sotto il glaciale pack del polo poetico dell’elegia senza riemergere prima di essersi stemperati nel tempo e nella mitigazione del focoso e passionale animo di LeeLoo. Di questa traccia mi scalda la preponderante sentimentalità dell’autrice nascosta dietro un dito ben costruito di matura diplomazia e ricerca del riallaccio e della risoluzione del conflitto. Lo ammetto: quello che mi ha sempre ispirato di questa scrittrice è la capacita di trasformare il lume di una candela in un pirotecnico erudere di lapilli interiori dei quali, anche se celati, ne ravviso il magmatico ardere. (Filippo Fenara)
GRAFFIO
In caduta
asettica,
soffio
spiragli
in dissonanza
sulle note
dell’essere.
Allacciata
la corda
del tempo
porgo
la gota
rigata,
graffio
e piega,
segno
del mio
vivere.
Dall’ultima “Cielo”, cartacarbonata giusto la settimana passata, qualcosa si è incrinato, e il flusso di Alessandra scende in un dissing nemmeno troppo dissimulato, un punteruolo da ghiaccio che s’infilza nella carne viva del suo target, si abbatte liricamente come un predatore su un obiettivo dal destino oramai segnato, una vittima predestinata. Tengo a fare una necessaria precisazione che eviti problemi che in passato ho pagato, secondo me, ingiustamente: io, abituato alle “battles” di rap fin dalla prima adolescenza dove mi confrontavo con altri b-boys in strada in uno scambio di offese (spesso alle rispettive ed incolpevoli mamme) che si concludevano con un abbraccio, una birretta e la buonanotte, considero i dissing come forma aritstica che si oppone alle violenze vere e proprie esorcizzandole, non è mia intenzione fomentare qualsivoglia conflitto personale o sociale e mi schiero per la risoluzione pacifica dei contrasti. Però “Fame” scende cattiva, perentoria e risoluta. A livello letterario è una falce che non lascia scampo pur non utilizzando termini volgari, è esempio di compattezza senza fronzoli, una sentenza della cassazione che non concede repliche. Un’insieme di enunciati recisivi come “eccitando lo spasmo dell’ombra” o “fugge, fallita l’estorsione di pietà” che descrivono una persona subdola, viscida nel suo ostentare “il sonno dei tormenti” per destare interesse e conquistare visibilità e credibilità. Vi consiglio di guardare il reel di @senzavoce.it con la greve canzone di Marilyn Manson cliccando QUI, nella speranza che le diatribe si risolvano dopo un catartico sfogo non violento e la ricerca della sintonia nei confronti del prossimo. (Filippo Fenara)
Era da tempo che anelavo ad una collaborazione con il “groovy” Francesco Minichini ed è successo in maniera atemporale per volontà coincidenti al di fuori dello spazio e del tempo: scrissi difatti una cosa intitolata “Hikikomori” tempo fa, ed ho ritrovato il bandolo della matassa in questo tagliente sfregio d’anima del “compagno di merende” Jodelaki che ha suggellato il suo scritto con lo stesso titolo. Ma non è tanto l’intestazione a fare da denominatore comune, quanto il pensiero desocializzante che impernia i due scritti, la quieta mascolinità disidentificata da una società nella quale adattarsi corrisponde a soccombere. Credo che sia per Filippo che per Francesco l’autoesilio venga manifestato come un diritto inalienabile, in un sistema che vorrebbe recluderci tramite il peggio e la vacuità morale dentro “soffocanti” recinti digitali chiamati paradossalmente “social networks”, all’interno di banali frasi fatte che nascondono una sleale ipocrisia di massa, mentre il mondo “reale” sta per essere coercitivamente sgomberato come se ogni essere umano non avesse gli stessi diritti (o meglio, privilegi) dei suinidi oligarchi e dei loro turpi servitori. Mentre la mia cosa è più simile ad un cactus che con le sue spine tende a tenere a distanza chiunque, il flusso di Jodelaki è più interiorizzato, anche se di facile lettura in “presa diretta”. Non so in quanti leggeranno queste due scariche elettriche, ma sono certo che chi lo farà troverà un senso nuovo nello smembramento di uno status quo suicida per spianare la strada alla nuova era. Strizzo l’occhio a Francesco Minichini e vi auguro di stare in luce. (Filippo Fenara)
Ringraziamo dal profondo del cuore il lavoro grafico di Francesca De Masi aka @inosservatapasso che rappresenta sè stessa donando il suo tempo e non perdendosi in false promesse o chiacchiere senza valore alcuno.
Dopo aver messo tutti “in riga” con la sua prosa densa come miele e invasiva come lubrificato irrinunciabile linimento, Luisa Cataldi decide di sfoderare il fioretto della poesia in un affondo sentimentale ad alta quota emotiva, architettando la propria nudità di spalle come l’altro taglio di una lama, dove un forte orgoglio alimentato dalla frustrazione “d’essere stata troppo a lungo relegata in un cassetto” si palesa forte per poi stemperarsi lentamente lungo il fluire armonioso dei versi. Forse non esiste il “delitto perfetto” ma questa poesia profuma d’intonso, trasparente, scorrevole, sensato, impeccabile: il flusso significante di Luisa Cataldi eccelle in disciplina letteraria, nonchè in una tetragona presenza in primo piano di contenuti distillati dalla propria anima. Dopo essermi calato tra queste onde sinaptiche, nel riemergere mi è sovvenuto che, l’anno scorso, avevo scritto una cosa intitolata “Rivestirsi”, che poteva essere l’asincronico pensiero maschile in un confronto speculare con questa “Spogliarsi”: una coincidenza, la prova provata della fisica quantistica, non so, comunque, alle 21:00, ripubblicherò la mia composizione e vi assicuro che leggere le due poesie in sequenza sarà un’esperienza a dir poco lisergica. Segno che io e Luisa Cataldi siamo in connessione empatica, e questa per me è la notizia che svolta la giornata. Statemi in luce. (Filippo Fenara)
SPOGLIARSI
Spogliarsi
al tuo cospetto
d’ogni convinta imperfezione,
nuda ed offesa
dall’amara frustrazione
d’essere stata troppo
a lungo relegata nel cassetto
mai sepolto
di un ricordo.
Mi sforzo di godere
d’un piacere
che pur resta taciturno,
ma ti mostro
solamente le mie spalle.
La parte forse
migliore di me
verrà allorquando
avrai afferrato il senso
d’ogni vertigine sul mio corpo
e gli occhi miei avranno smesso
di sorvolare la ruvida
parete per ferirsi
nuovamente
dentro i tuoi.
Non so nulla – giustamente – di come procede la sua vita privata, è da un po’ però che ravviso un picco d’ispirazione nello scrivere di Ilaria e mi chiedo se il suo esprimersi combaci con il suo viversi quotidianamente. Pura curiosità esegetica. Fatto sta che le sue parole vanno oltre la semiotica, diventano icone, accentramenti di senso e di sensi, questa “Sole Padrone” è paradigmatica nel suo imbocco iniziale semplice e diretto, come la corsia d’accelerazione di un’autostrada che dirige verso un mondo più onirico, costituito dalla mancanza di angeli “disposti a scostare gli scarti dei tuoi sospiri”, un “sole padrone” accerchiato come il totem di una tribù indiana e l’impavido “bruciare la fiamma”. In questa breve poesia di Ilaria, ho trovato l’aforisma ineluttabile e la dissonanza jazz, un voler imprimere calchi d’anima bypassando il labor limae, l’impulso slam poetry, la freschezza e il surreale che s’alternano rievocando (ovviamente con tutta la modestia che il paragone merita) alcune tecniche cinematografiche di David Lynch e del periodo “pulp”. Leggetela ma soprattutto seguite Ilaria sul profilo Instagram, ho il sospetto che il segreto di questo suo “momento magico” sia il non rendersene completamente conto. Statemi in luce. (Filippo Fenara)
Pensandoti, m’esilio dal tempo coincidimi oltre il dissenso affacciati sul tuo mancarmi sbagliami se non puoi indovinarmi.
Spiegami io non so capirmi e tacimi se non sai che dirmi… la tua vanità pronuncia l’addio salpando, fendo l’oblio.
In nome di tutte le gocce di brina lungo lo stelo di questa mattina per Dio, non sono se tu non mi sei allora, fanculo al cosmo e a tutti quanti gli Dei la notte mi sfugge, indifferente rischiara un’alba definitiva in un velluto d’aurora torna pure nell’ovvio il sipario ora cala sull’eco di una sola fottuta parola: sayonara!!!
Personalmente ho un debole per la fotografia impulsiva di La Fleur (ospite della rubrica Foto Sintesi che potrete trovare QUI) e mi viene da pensare lo covi anche l’eccelsa Elisa Giusto, la quale si è ispirata proprio ad un’immagine dell’artista piemontese per delineare una discesa poetica talmente ripida nell’esposizione da togliere il fiato e lasciare un graffito indelebile sul fianco dei treni che passano nelle vite degli innamorati. In questo vortice lessicale però, i passeggeri decidono di non salire sul vagone che li avrebbe convogliati verso una destinazione comune e il risultato di questa favola senza lieto fine ma assolutamente possibile è quello proprio di due foglie a forma di cuore che si seccano sotto un sole impietoso. Mi hanno fatto riflettere molto i versi centrali del poema “potrei avvicinarmi ma per difesa di anima fraintesa nei versi amo celarmi”, quindi espressione inversa, nascondiglio invece di disvelamento, implosione al posto di propagazione del sè. Un comportamento dai tratti prettamente femminili (ma non solo) che si sdoppia in due interpretazioni (nelle quali il possibile partner di solito sceglie quella sbagliata…), la prima è una sorta di recesso induttivo, ovvero che mira ad essere inseguito nella tana emotiva per “giocarsi la partita” in un territorio conosciuto e congeniale al soggetto scrivente. La seconda combacia con le parole vergate, ovvero si rinuncia veramente all’idillio proprio per paura di essere fraintesi e anche questo succede frequentemente nell’incontro tra soggetti che si attraggono e finiscono “a terra, stremati” con “la forma di chi ha saputo amare”. La Fleur e Elisa Giusto, un connubio struggente. Statemi in luce. (Filippo Fenara)
Con un solo – eccezionale – componimento, l’inarrivabile Biagina Danieli è riuscita a toccare simultaneamente due zone “erogene” della mia anima: l’amore puro e fedele che provo per Marco Pantani e il mio palese e cedevole attaccamento ai dialetti e alle parlate tradizionali del (una volta) Belpaese. Non mi sento di commentare più di tanto una poesia che suona come una chitarra acustica arpeggiata e spiega in pochi versi molto più di trent’anni di scuole, istituti ed università, pura cultura di strada che Biagina porta fieramente come vessillo del proprio modo di essere, del suo fiorire senza dimenticarsi delle radici, del suo struggente scrivere del popolo e per il popolo. Ed è molto complicato recensirla perchè quando le si traccia un confine attorno, lei, nella composizione successiva, l’ha già scavalcato, come ogni creatura che trova la libertà assoluta tra i versi. Godetevi questa rarità di Biagina Danieli e statemi in luce, anche quando la salita si fa ripida e sembra di non potercela fare. (Filippo Fenara)
ER PIRATA
“Eccolo, eccolo, s’è arzato, Biaggì, s’è arzato!”
In piedi in su la bbici, le mani in sù per manubbrio, n’occhio davanti e n’artro arretro.
Era partito, e nun ce ne stava più pe nessuno, na pedalata dopo n’artra, un metronomo, ammazza sembrava magnasselo l’asfarto.
Co la pioggia,cor freddo, cor callo, quanno je girava la brocca era n’amen.
La salita pareva na discesa. Macché volava!
Volavano pure i laccetti der fazzoletto che c’aveva in capo. E ssi, perché senza quer fazzoletto nun era lui, nun era er pirata, che rubbava metri e secondi a tutti, senza storce la bbocca.
“O vedi Biaggì, a vita è così, na strada de montagna bella irta, n’fazzoletto in testa, gambe bbone e n’secchio de sacrificio pe arrivà in cima. Nun te crede che er pirata nun sente la fatica, nun sente er dolore a le gambe, va avanti e bbasta. Ce crede!”
E c’aveva raggione.
Poi a n’certo punto la vita s’è magnato er pirata, er doping, a droga, l’invidia sopra a tutto ripetevi, nun c’hai mai creduto e quanno è morto, pe te, se n’è annato n’amico vero.
E pure pe me la stessa cosa, quarche vorta me rivedo na scalata e me commovo, a pensà a tte, ar pirata e alli tui inseggnamenti.
Ripubblico questa mia breve cosa che scrissi in memoria del grande MarcoPantani, nel Giugno dell’anno scorso, per stemperare l’attesa della Carta Carbone inerente lo splendido scritto “Er Pirata” della prodigiosa ed allo stesso tempo estremamente modesta e umana Biagina Danieli. Una chicca da non perdere scritta nella parlata romanesca, fuori alle 18:00. Statemi in sintonia. (Filippo Fenara)
ASFITTICO INGANNO
Domatore dell’impervio su destrieri di carbonio, stroncato dall’asfittico inganno del livore vestito a compassione.
C’è un celebre aforisma di Leonard Cohen che recita “C’è una crepa in ogni cosa. Ed è da lì che entra la luce”. Ecco, Sydan, secondo la mia percezione, è la proprietà commutativa del succitato aforisma: un guscio nel quale si apre lentamente una crepa dalla quale fuoriesce un chiarore in varie tonalità di colore e comunque sempre illuminato e illuminante. Questa “Senza Appigli” è un breve bagliore di cui è bello soffermarsi a scrutarne il ricamo logico e l’anticonformista palesare il diritto di “potersi fare male”, che in un contesto di mistificato e pericoloso assistenzialismo nel quale giacciamo come mosche in una ragnatela, esplica un significato molto potente e incisivo. Sfumature che non devono sfuggire nella lettura delle tracce di Sydan, che lentamente schiude l’involucro per propagare il fascio luminoso della sua anima. (Filippo Fenara)
Francesca, solo a pronunciarlo scroscia acqua fresca, introverso bocciolo da cui spuntano vispi occhi neri sempre in procinto di spiccare il volo, fammi un po’ di posto tra i tuoi pensieri che qui fuori, nello ieri di te, c’è tanto freddo e sguardi insinceri.
Francesca, detto di te suona diverso, faro erto e certo tra irruente mareggiate, onde arricciate attorno al disperso marinaio nella doppiezza di flutti d’un eterno Febbraio tra i quali scompaio, scura cometa d’ogni poeta solitario che grida “terra!” mentre si serra la tua bocca inanellando sorrisi di fulgida madreperla.
Francesca, accordo in maggiore, il suono migliore che a sentire la mia anima riesca.
Dedico questa “cosa” all’amica Francesca De Masi aka @inosservatapasso con innocente trasporto e senza alcuna malizia, femminea delizia che dell’imminente primavera è primizia. (Filippo Fenara)
Da un’idea di @ipensierinparole e @luisa_cataldi nasce su Instagram questa iniziativa di poesia collettiva #poetiaconfronto accomunata dal tema #sfogo, in collaborazione con, oltre alle succitate organizzatrici, @absurde_bnw, @vanskywriter, @il_diario_dei_pensieri, @riemersa, @laelipensierieparole, @merenernellanotte, @inosservatapasso, @massimilianogiannocco, @pensieripassati, @796farfalla_bianca e, purtroppo per loro, anche io, @lemiecosepuntonet. Statemi in luce. (Filippo Fenara)
#sfogo
Le mani tra i capelli
tremo – mi siedo
dopato di tedio
non trovo rimedio
ingurgito fastidio
rigurgito aulicidio
per il lugubre epicedio
che attinge nel medio.
Rugiade
Farfalle
Tramonti
It’s still a stillicidio!!!
Sfogo,
psicotico pogo
poeti arsi nel rogo,
scrittorini a modo
scorsoi come un nodo.
Sfogo,
sbrano come un dogo
contromano vogo
incontro umano volgo
versi emersi erodo
caccio esteti di frodo
sono poetry sitter
di rookies del logos.
Amore e morte, cos’hanno in comune? Il bianco ed il nero che, come nel simbolo del tao, non possono essere se non contemporaneamente? I poli opposti di un magnete che generano energia vitale? La luce del sentimento che s’alterna all’oscurità della perversione nella fusione di due corpi? Un’esteticamente aggraziata e concettualmente delucidante risposta la si trova tra i versi di “Quadri Notturni” del poeta Carlo Molinari, ultimamente molto attivo e presente nel contesto della poesia contemporanea italiana. Nel continuum del suo tracciato creativo è sempre in grado di rigenerarsi “switchando” le diverse angolazioni con le quali il suo sguardo curioso ed attento coglie nuovi particolari del rapportarsi sentimentalmente, mettendo in dubbio le ovvietà che si sprecano quotidianamente sull’invece misteriosa luce buia dell’amore, alternando con vocaboli antagonistici flash d’idillio etereo ad altri di sprofondo diabolico e depressivo. Ora sarete voi, leggendo questi solchi, a confermare o confutare la mia disamina emotiva, fermo restando il coefficiente aulico che Carlo Molinari riesce a conferire ad ogni sua composizione. Statemi in luce, ma non temete il buio. (Filippo Fenara)
Per cavalleria, dovrei prima prendermi cura delle Signore, ma credo che l’amica Maria Grazia Pellegrini mi perdonerà se comincio presentando, per quel poco che ho avuto tempo di conoscerlo (ma approfondirò senza dubbio), il pittore e poeta Norman Sgrò, di cui ho colto immediatamente la bontà del tratto e la maestria nell’utilizzo delle tonalità nei suoi dipinti (ovvio che vi inviti a seguirlo sul profilo Instagram) che hanno ispirato la lusinghiera e diabolica stesura di questa elegia dai toni cupi e solo apparentemente funebri. Un seducente passaggio lirico negli inferi aulici “Caduta”, un adescare anime innocenti per portarle tra i gironi della cedevolezza, il porre un tarlo, un dubbio, innescare il tentennamento tracotante nella scelta eterna tra purezza luminosa e tangibilità materiale, una roulette russa espressa con grande capacità lessicale da Maria Grazia Pellegrini che, in rappresentanza della lusinga, smonta la personalità del lettore senza scomporsi di fronte al conflitto che risiede in ogni essere umano senziente. Trovo questi versi come una cartina tornasole per interrogarsi una volta per tutte e, a differenza dei politicanti, fare una scelta definiva sulla parte con la quale schierarsi, evitando di sciupare la propria esistenza terrena nell’ignavia a cui la pandemica alessitimia costringe. Questa è molto di più di una poesia, questa è vita vera, scelta irrevocabile, verità. (Filippo Fenara)
Ce ne fossero di poetesse come Nadia Alberici. Per quelli come me, che hanno la “fissa” di trovare anime importanti impresse su pellicole virtuali per poi divulgarle nell’etere a fin di bene, cernire un componimento di Nadia Alberici è come pescare in un oceano sconfinato ricco di fauna aulica: pur rimanendo fedele alla sua innata finezza ed al suo stile incomparabile (che non vuole significare superiore o inferiore, ma unico e caratterizzante), affronta numerosi contenuti ed angolazioni di pensiero che rendono il suo repertorio vario ma uniforme ad altissima quota. “Furono Mesi In Cui” è una carezzevole lirica probabilmente ispirata dai lunghi periodi di lockdown, comunque è un canto alla solitudine che, da una premessa iniziale di dolorosa mancanza, si trasla nella parte centrale in un paragone, una caleidoscopica metafora floreale, uno schiudersi del ragionamento e dell’anima all’accettazione della realtà modellandola secondo occhi saggi e trasognanti. Il finale è un’epifania di amore che prende forma nell’iconico dittico “e cullai la solitudine come se fosse / una bambina trovata per strada”, versi che sfociano in una chiusa che sbriciola anche il cuore più coriaceo. Sottolineando la modesta gentilezza di Nadia Alberici devo ammettere che, leggendo questa gemma, mi sono sentito un alunno (discolo) ad una lezione d’amore. (Filippo Fenara)
È da qualche tempo che seguo il lato più smaccatamente aulico di Eli, dopo averne apprezzato l’attitudine più urbana e di strada, caratterizzata da raffiche di rime serrate, ritmi incessanti e contenuti spumeggianti o sarcasticamente irriverenti. È stata una piacevole sorpresa. Soprattutto quando mi ha proposto una sorta di “remix” della mia “Divelgo”, decostruendo gran parte delle immagini e dei termini che avevo voluto trasmettere per ricomporli in una femminea fiammata d’eros, una risposta che completa la eco del mio sussulto poetico. Il risultato, oltre a dover essere vietato a persone deboli di cuore, è una uniforme difformità sentimentale che arde sotto versi a volte allusivi ma mai volgari. Sono ancora scosso per il potenziamento geniale apportato dalla singolare tecnica di stesura e dalla proiezione emotiva concessimi dall’infuocata tastiera della talentuosissima Eli, continuando a brancolare nel buio del mistero che copre l’incolmabile assenza di una silloge della poetessa meneghina. Editori, aprite gli occhi please. (Filippo Fenara)
Cambio di profondità di campo. In questo ultimo periodo la vena poetica di Alessandra ha lentamente spostato le sue scenografiche pulsioni auliche, dalla coronarografia sanguinea della propria interiorità è passata ad un autoscatto dove tutto ciò che è alle sue spalle risulta ormai sbiadito, diafano, al contrario di lei che appare a fuoco, rinvigorita da una nuova rinascita. Nel leggere i componimenti de @ilcircolodellepoetesse, mi sono reso conto che, probabilmente per connessione empatica, molte di loro stanno varcando il crinale della sofferenza per scrutare oltre ai propri dolori, al di là delle normali e numerose sconfitte che tempestano il percorso vitae di qualsiasi essere umano: tutto ciò è motivante e viene a sussurrare all’orecchio che la poesia è foriera anche di questo miracolo. “Cielo”, come ho appena accennato, è l’ennesimo gradino superato della poetessa conosciuta su Instagram (ma vi consiglio di visitarne il bellissimo blog) come @senzavoce.it in procinto di liberarsi di ricordi claustrofobici, scaduti, compulsivi, per poter avanzare verso un ignoto che si svela attraverso la lampada della conoscenza e del coraggio di andare avanti senza diventare schiavi di traguardi materialistici. Versi leggeri, che se qualche tempo fa richiamavano la visceralità malinconica del blues e di Janis Joplin, oggi ricordano di più le aperture d’archi di tanti brani dei Massive Attack, nel voler credere in un futuro celeste come il…cielo. (Filippo Fenara)
L’incontro tra Marianna Bindi e una ragazza disperata su un traghetto che naviga nelle acque del Mediterraneo. L’obiettivo percettivo agraduato dell’artista piemontese procede alla traguardazione e messa a fuoco con uno scatto estemporaneo che, poco dopo, trasmuta in versi armonicamente dissimmetrici, in ritagli di pensiero appiccicati come un collage a formare una stesura integra nella sua frammentarietà. Questa poesia è un ossimoro aforismatico, un coacervo di diapositive che solo apparentemente non hanno nulla in comune tra loro. La chiave di lettura è da ricercarsi nella proiezione recensoria in un bianco e nero ad alto contrasto da parte di Marianna Bindi nei confronti della ragazza incontrata, nella rilettura della situazione filtrata attraverso la propria personalità in un virtuosismo poetico di stampo egotista. Da umile appassionato d’arte moderna non posso non puntare un riflettore anche sulle astratte immagini elaborate dall’artista che accompagnano in un valzer emotivo le idealistiche poesie pubblicate. (Filippo Fenara)
NENIA DI INIZIO SETTEMBRE
Sul quel traghetto
sei una tomba d’acqua.
Sull’epigrafe scrivi Non m’amo in questa stanza.
Accendino, sigaretta, mare in pinna.
Cristallo a rompere sulle onde.
E cerco le parole giuste
ma sono allo stesso giogo. Soffrirai.
Allo specchio degli specchi,
rotto a cura di taglio,
riflette lo stesso abbaglio. Lo sbaglio sei tu.