Dall’ultima “Cielo”, cartacarbonata giusto la settimana passata, qualcosa si è incrinato, e il flusso di Alessandra scende in un dissing nemmeno troppo dissimulato, un punteruolo da ghiaccio che s’infilza nella carne viva del suo target, si abbatte liricamente come un predatore su un obiettivo dal destino oramai segnato, una vittima predestinata. Tengo a fare una necessaria precisazione che eviti problemi che in passato ho pagato, secondo me, ingiustamente: io, abituato alle “battles” di rap fin dalla prima adolescenza dove mi confrontavo con altri b-boys in strada in uno scambio di offese (spesso alle rispettive ed incolpevoli mamme) che si concludevano con un abbraccio, una birretta e la buonanotte, considero i dissing come forma aritstica che si oppone alle violenze vere e proprie esorcizzandole, non è mia intenzione fomentare qualsivoglia conflitto personale o sociale e mi schiero per la risoluzione pacifica dei contrasti. Però “Fame” scende cattiva, perentoria e risoluta. A livello letterario è una falce che non lascia scampo pur non utilizzando termini volgari, è esempio di compattezza senza fronzoli, una sentenza della cassazione che non concede repliche. Un’insieme di enunciati recisivi come “eccitando lo spasmo dell’ombra” o “fugge, fallita l’estorsione di pietà” che descrivono una persona subdola, viscida nel suo ostentare “il sonno dei tormenti” per destare interesse e conquistare visibilità e credibilità. Vi consiglio di guardare il reel di @senzavoce.it con la greve canzone di Marilyn Manson cliccando QUI, nella speranza che le diatribe si risolvano dopo un catartico sfogo non violento e la ricerca della sintonia nei confronti del prossimo. (Filippo Fenara)
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