Ho perso la testa per un album di rap. E che rap. Roba sporca, di bassa fedeltà, campioni blues che si mischiano con beats interferiti da fruscii, flussi lirici faticosamente a tempo slacciano rime senza fronzoli, raccontano storie che non trovi sui quotidiani, la difficoltà dell’esistenza vissuta dal punto di vista civico e pedonale, echi di voci di vecchie canzoni escono da roventi MPC per riversarsi negli stampi di un album imperdibile per gli amanti del genere. Ovviamente sto parlando di “Royaume Du Sauvage” di Observe Since 98, emsì dalla fine dei ’90 fino al 2002, anno nel quale si ritirò dalla scena, per poi farvi ritorno nel 2016 con un’etichetta di rap underground nuova di zecca, la “Loretta Records” e nelle vesti di produttore musicale. E che produttore. In questo suo disco ospita numerosi e talentuosi rappers che, dopo un primo ascolto ostico, conquisteranno le sinapsi degli hip hop addicted. Sgancio sull’obbiettivo la prima bomba, “No Shame” che tra tappeto e cavaliere lirico (Unorthodocks) non saprei cosa sia meglio.
Ciccia fresca frollata nel freezer, roba da intenditori. Ora passo al secondo ascolto di questo articolo, la dirtyssima “Dos Equis For Eyes” con la featura al micro di Nino Graye, John Creasy e Che Uno con tricks poetici in castillano e campioni di flauto e pianoforte che ne fanno una favola senza lieto fine ma con un robusto durante.
Non saprei come spiegarvi, ma le tonalità di grigio di questo album sono un azzeccato pendant con la gente comune e su di me hanno un effetto opposto: un po’ come quegli album da colorare per bambini, le zone di vuoto che questi suoni circoscrivono diventano spazi mentale da colorare liberamente con i propri sentori. (Filippo Fenara)
Ossantocielo che sonoro smataflone (schiaffone in bolognese) mi rappresentano i Four Owls. Gli amanti di sti prodotti dalla doppia acca non possono esimersi dall’ascoltare questo giasone (grosso sasso in bolognese, mi sto facendo prendere dallo slang) acustico, questi emsìs ti convogliano dall’asfalto alle nuvolette calpestabili dell’olimpo della spoken word, ve lo dico a guardia abbassata, non lasciatevelo scappare. Formatisi nel 2011 dall’unione di quattro liricisti britannici d’eccezione, i The Owls (così vengono chiamati formalmente) arrivano a questo centratissimo terzo album che vanta, tra le tante, le feats di personaggi mitologici della vecchia scuola come Kool G Rap, R.A. The Rugged Man e Dj Premier, un lavoro che va oltre il desiderio di sperimentazione ed innovazione per radicarsi nell’anima dell’ascoltatore con profonda incisività regalata dai tappeti curatissimi e da flussi di versi che arrivano direttamente dalla strada. Passiamo per le nostre orecchie il pezzo che preferisco, “Coming Home”, un concentrato di picchiate dialettiche sopra un beat ipnotico e sporco. Suona vivo…
Se ancora non foste pienamente convinti della classe di quest’ensemble, vi porgo sopra un vassoio d’argento la traccia con la collab di DJ Premier, intitolata “100%”, dove le rime s’inanellano senza cali tensivi per interrompersi solamente per lasciare spazio agli scratches e turntablisms del suddetto DJ.
Un lavoro dedicato ai nostalgici della scuola hip hop degli anni ’90, riprodotta e amplificata dal talento dei The Owls, che dimostrano per l’ennesima volta che è pericoloso dimenticare le radici se si vuole che la chioma del movimento cresca florida attraverso le stagioni di questo pazzo mondo. (Filippo Fenara)
Oggi va così. Non che abbia fretta o soffra di pubblicazione precoce. Questa mattina ho brensato l’audio bagliore dei Premonition in quanto in rete non si trova granchè su di loro e l’essere troppo prolisso avrebbe tolto audibilità al loro fiammeggiante EP “Dominant”. La stessa cosa è per l’omonimo album del 2015 dei Two Weeks Notice un duo estemporaneo (Mikal Khill & Tribe One) che ha dato alle stampe un godibilissimo album di rap. Solamente rap, senza un ridondante hype, senza pretese di eccentricità, con un equilibrio ed un’armonia che si respira lungo tutti i 25 minuti del lavoro. È un album che consiglio semplicemente perchè è piacevole, perchè mi ha inceppato il replay della spotiffa, perchè i due emsì sono in forma straordinaria, hanno un flusso zampillante come una fontana lirica, tutto suona veramente fresco. Caccio in plancia la title track “Two Weeks Notice”, vorrei che faceste caso a quanto sia fluida la discesa a valle di Tribe One nella seconda strofa, un momento veramente didattico.
Roba da andar nei matti, quel gusto d’improvvisato con classe che permea tutto l’album. Metto su un altro audio per i più scettici, questa è la volta del suono caffeina e sole all’alba di “I Don’t Want To Know”, buon ascolto ragazzi.
Ora le dolenti note: come vi ho preannunciato, non c’è molto in rete su questi due liricisti, vi lascio i links alla spotiffa e alla bandacampa (sopra la panca) e vi mando un buffetto per ricordarvi di ascoltare a ripetizione questo bel lavoro dimenticato dalla continua e frenetica autocombustione del mercato discografico. (Filippo Fenara)
Questa tracciazza di KRS-One risale al 1993 e ancora fa tremare le fondamenta delle istituzioni, soprattutto per il contenuto che non le manda certo a dire alla polizia e ai metodi repressivi e violenti messi in atto nei confronti della comunità nera. Bene, se dopo 27 anni le cose non sono ancora cambiate, il 55enne KRS-One scende di nuovo in strada con il movimento Black Lives Matter ed un album di hardcore hip hop, “Between Da Protests” (“Tra Le Proteste”) che sconquassa le menti rintronate dei maggiordomi obbedienti. Pur avendo avuto una vita di successi discografici che gli avrebbero permesso di “scavalcare la staccionata” e sedersi su una comoda poltrona, KRS-One ha preferito tenere conferenze nelle università, impegnarsi socialmente e continuare ad alimentare l’assopito mercato musicale con uscite discografiche da urlo. Nato a Brooklyn nel 1965, a 16 anni scappò di casa per rifugiarsi nel Bronx ed iniziare una lunga vita di strada, vedendo uccidere in una sparatoria tra gangs rivali del Queens il proprio “socio” nei BDP, DJ Scott La Rock, riuscendo ad evitare droghe e armi, venendone fuori solo con il suo talento, dapprima come writer, poi come rapper che MTV ha considerato come uno dei migliori 6 di sempre. Lui non ha tradito le sue radici e per me questo è essere uomini (o donne) con le palle grosse come meteoriti. Fatto questo doveroso preambolo, “Between Da Protests” è un gran disco per gli amanti dell’hip hop no frills e denota una certa originalità nei tappeti commissionati a diversi produttori statunitensi sotto la supervisione del nostro eroe. Cacciamo sulla ruota d’acciao un pezzo minimale che mi fa ribollire il sangue “Tight” e muoviamoci assieme al corteo…
Staffilata al sette. Ora v’inoltro nell’apparato auricolare un’altra bomba del disco intitolata “Medu Neter” con la featura di Sun One, qui viene fuori il talento del liricista newyorkese, che si esibisce in decori di sfarzose rime, overbeats, in un tripudio dato da una civica base dall’atmosfera sinistra e notturna.
Più veloce della luce, più incisivo di un miracle blade, questo album è stilisticamente una perla, se poi avete voglia di carpirne i contenuti non sarà che un bene per chi vuole farsi un’idea di quello che significhi contribuire alla difesa dei diritti di una comunità intera. L’unica associazione in Italia che ricorda quella afroamericana è la mafia e mi sembra di aver già detto abbastanza.
Ok, non ho ancora detto che il francese è un degli idiomi che più si adatta all’hip hop,così come non vi ho mai parlato del rap francese e della sua lunga e rispettata tradizione. La perfetta occasione si presenta con “Jusq’à La Vie” di L’uzine, il recente album di un collettivo di stanza in una cittadina collocata a pochi chilometri da Parigi. Il succo di quest’album è l’oggettivo “così si fa”, riferito all’hip hop underground e minimale di scuola anni ’90. Un beat scarno e solido, varie voci che si alternano stilosamente al microfono e poco altro, per dare forma alla vera poesia di strada. Un disco bellissimo e minimale che introduco con la traccia “Feuille Blanche” un fendente che lascia poche interpretazioni…
Proseguiamo l’esplorazione del rap periferico di L’uzine andando ad ascoltare uno dei brani più belli dell’album, “La Pacte” con un evidente taglio epico, un beat infiltrante come un vaccino e delle rime incandescenti sdoganate dal collettivo francese.
Per concludere, vi faccio inoculare qualche centilitro di “Excellent” uno scarno esempio d’urbanità musicale che non mancherà di stupirvi per spontaneità ed estemporaneità.
Dopo esservi goduti i video e la musica di L’uzine non potete far altro che streammare l’album completo, una raccolta di civica sonorità, una dimostrazione di spontaneità di strada di difficile reperimento. Vi lascio i links di seguito, fatene buoun uso!!! (Filippo Fenara)
Ogni articolo che scrivo divento sempre meno “giornalista” o “recensore” e sempre più digei di una radio libera che, dopo un preve slogan di decollo, lancia nell’etere tracce che ama per condividerle con chi si sintonizza sulle giuste frequenze. Non solo per gli “Audio Bagliori” e i “PresentandoRapPresentando”, anche le poesie ed i racconti che scelgo nei meandri dei social sono figlie del mio dig’n’play (ricerca e riproduci) anche perchè ritengo che tutte le espressioni artistiche abbiano in comune, come dimostrato con Francesca De Masi aka @inosservatapasso, l’amalgama d’anime che rende possibile la collaborazione, la condivisione e lo scambio equo tra esseri umani. Tutto retaggio del mondo hip hop che ho vissuto dall’adolescenza fino ad oggi, l’aver contemplato le varie discipline che si racchiudono in un contesto collettivo di comunità coesa, come nel caso del rapper e produttore britannico Jehst. Quest’ultimo, nato nel Kent alla fine degli anni settanta, si è fatto fascinare dalle ramificazioni del mondo hip hop fin da giovanissimo e per molti anni è stato un rispettato graffittista fondatore di alcune importanti crews per poi dedicarsi totalmente alla musica come emsì, debuttando sul mercato discografico nel lontano 1999. Oggi vi parlo di questo breve extended play intitolato “Heathens” un condensato di hip hop denso e tracimante bitume, sporco e realistico, pesante e dalla fuligginosa atmosfera urbana. I miei polpastrelli si alzano e danno il via libera al vinile che spalma il suono del freestyle (rap improvvisato sul tappeto sonoro) “State Of The Union”…
Trovo questo pezzo veramente di qualità grezza ma genuina, dove lo smog nasconde rime fiammanti come un bolide appena uscito dal concessionario. Mi basta skippare il CD (lasciatemi un po’ fantasticare) sulla traccia successiva per trovare un’altra pepita oscurata dai vapori industriali della periferia, si chiama “Body Bag” ed è il gancio che vi manderà al tappeto…
Non so cosa farci se queste pedate da yeti vi hanno fatto tremare le pareti, in fondo è un terremoto che rimuoverà un po’ di tossine commerciali dalle vostre preziose orecchie maltrattate dal mainstream. Vi lascio di seguito i links per approfondire la conoscenza di Jehst e, in cuor mio, so di aver fatto opera di bene. (Filippo Fenara)
Mike Ladd e Remi Rough sono due pionieri e pilastri della cultura hip hop internazionale, il primo come produttore e rapper, il secondo come musicista, emsì e pittore, prima di graffiti poi di quadri esposti nelle più importanti gallerie d’arte moderna europee. Benchè non più adolescenti (sono un po’ più avanti con l’età di me, credevo fosse rimasta solo la Regina Elisabetta), un bel giorno hanno deciso di mettere assieme le loro sconfinate esperienze nel progetto TheDeadCanRap (ovviamente c’è una bella dose d’autoironia nel nome) per sfornare uno dei più innovativi e sperimentali album di rap / hip hop, elettronica, spoken word, degli ultimi due secoli. Per stare stretti. L’album “The Dead Can Rap” è indicato sia per i nostalgici degli albori del rap (Mike Ladd, a garanzia, è cresciuto nel Bronx negli anni ’70/’80) sia per coloro che – a ragione – si rifiutano di pensare la Trap come traino per l’evoluzione della musica (con questa asserzione non voglio demonizzare i protagonisti della Trap, tra di loro ci sono talenti assoluti e illuminati, è il movimento che ha strizzato troppo l’occhio all’establishment dei mercanti perdendo in creatività e spinta evolutiva). Bando alle mie manie di protagonismo letterario, facciamo un fast forward della musicassetta (ve l’ho detto che sono vecchio) di “The Dead Can Rap” e fermiamoci appena prima della traccia “Thirty Two Thou”, premiamo play e partiamo…
Sentito che bussi? Questi Godzilla beats, accompagnati dagli obesi bassi sintetici non possono non aver molleggiato le vostre movenze, solitamente nervose e a scatti. Non ci credo. Comunque sia, dalle frequenze contemplative (?) di Le Mie Cose, trasmetto un grande esempio di quello che è il rap sopra una futuristica base elettronica, come per dimostrare che anche noi, senili avanzi di hip hop jams, abbiamo ancora molto da dire riguardo al futuro. È il momento di “Bakelite”.
Su, rialzatevi giovani lettori tramortiti, pensate solo se vi avessi fatto ascoltare tutto l’album (cosa che farete poi da soli in casa, allacciando le cinture), ora sareste con la guancia appoggiata al gres di camera vostra. Attivatevi e andate a visitare tutti i links che vi lascio in calce, fatelo come se ad obbligarvi fosse un DPCM. (Filippo Fenara)
“Koreatown” è un quartiere di Los Angeles dal quale proviene l’emsì del quale vi sto per parlare, The Koreatown Oddity. Dunque, “oddity” si traduce in italiano con “stranezza”, è questo il motivo dell’altrimenti inspiegabile empatia che ho con questo rapper, produttore, scrittore, attore e chi più ne ha più ne metta, che ha messo a punto un disco difficile (anche per chi ama e segue l’hip hop da decenni…) quanto autentico, dissonante quanto avvincente, invendibile e per questo inestimabile, una vera rarità per chi avrà voglia di ascoltare con attenzione questo “Little Dominiques Nosebleed” e per chi, madrelingua o comunque in possesso di un buon livello di inglese americano, riuscirà a carpire almeno alcuni dei complessi passaggi lirici introspettivi del cantastorie losangelino. Lo sottolineo subito per evitare incomprensioni: non è un album da mettere come sottofondo mentre si prepara il cotechino impanato nel pandoro e fritto con la maionese: quest’opera (sì, lo ribadisco, questa è un’opera) merita e richiede un ascolto attento, altrimenti vi darà solo l’impressione di essere un’accozzaglia di campionamenti jazz, influenze gospel, gente che sbraita, emsìs allo stato brado, atmosfere psichedeliche e pianoforti senza capo ne coda. Effettivamente è così finchè, verso il sesto / settimo ascolto, non troverete tutto quello che cercate nella musica, più o meno come trovare la puntatrice sulla scrivania incasinata e cercarla vanamente per ore una volta che qualcuno l’ha rimessa in ordine. Avrei la tentazione di scrivere per ore di questo disco (che mi piacerebbe regalarmi in vinile per Natale anche se attualmente è in ristampa ed arriverebbe ad inizio Aprile 2021…) ma scatto lesto con un paio di ascolti che possano stimolare la vostra curiosità per lasciarvi liberi di ascoltarlo sulla spotiffa nella sua interezza. Cominciamo con un brano altamente psichedelico ma tra i più “accessibili”, ovvero “Koreatown Oddity”, allacciate le cinture…
Uauuuuuuuu, che pica!!! Dopo sta mazzata bisogna rialzarsi prima che il conto dell’arbitro arrivi a 10, su ragazzi, non fa male, non fa male, preparatevi al secondo ed ultimo jab hip hop che sto per assestarvi mettendo su “A Bitch Once Told Me” (che accoppierei volentieri alla mia recente e impoeticamente delirante “Meretricks“), un paradigma di suono brutto, sporco, cattivo e volgare, un trittico di fine rare grooves cavalcato con destrezza dal flusso polleggiato ma penetrante degli emsìs. Occhio, anzi orecchio…
Sentito che roba? Ovviamente prima scherzavo, non era l’ultima traccia che vi propongo, c’è anche la serpeggiante e fischiettante “Kimchi” per darvi il colpo di grazia, se dopo l’ascolto sarete sopravvissuti, ci ritroviamo per tirare le somme.
Dunque, i primi cinque ascolti superficiali mi facevano pensare che sto tizio e i suoi amici avevano cominciato a brindare un po’ troppo prima delle registrazioni. Poi l’ho sentito in cuffia: forse uno dei più begli album del 2021 (…e ce ne sono stati parecchi di livello quest’anno) che nulla ha a che fare con la trap che, onestamente a questo punto sta diventando, con i suoi sciocchi testi capitalistici e le basi elementari, uno sputtanamento per gente come The Koreatown Oddity che produce vibrazioni civiche di ampiezza inarrivabile. Se gradite, dopo il prolungato ascolto sulla spotiffa, convolare all’acquisto il link dell’album sulla bandacampa (sotto la panca la bandacrepa) si trova qui. (Filippo Fenara)
A volte i contenuti delle varie forme d’arte viaggiano in un intrecciato parallelismo visionario divinatorio (scusate l’ossimoro) e le tematiche di questo meraviglioso “I’m On To me” di Rav curiosamente, come in un ipertesto, fanno richiamo all’inedita squisita poesia “Solco Dissepolto” di Francesca De Masi aka @inosservatapasso recensita in preview giusto ieri mattina su LeMieCose. Introspettivi entrambi, propedeutici all’esame di coscienza, al perdonare per perdonarsi, tutti e due intrisi di quell’approccio a bassa fedeltà che profuma di vicinanza, asfalto, piedi ben piantati per terra, cioè quando le arti risultano essere il miglior esempio quantistico dello spazio e del tempo. Ma torniamo a questo eccezionale lavoro Hip Hop, dalla durata di soli 20 minuti che vede gli splendidi groove carpets di Rav, cavalcati dalle voci dello stesso Rav, dell’eclettico Scuare e dal timbro caldo e sensuale di Kill Bill: The Rapper e che sgancia liriche obnubilate dal pessimismo e dai sensi di colpa anche se, proprio nella traccia finale, il nostro paladino del beat vede la luce in fondo al tunnel e si convince a resistere ancora un po’ ripetendosi l’acusticamente ridondante frase “Non sarai mai perfetto e questo dovrebbe calmarti, quindi inspira ed espira”. Cominciamo la degustazione di hip hop da standing ovation con una sorsata di “Dandelions”, un’inquietante base lo-fi da luna park solcata dal bollente flusso di Kill Bill: The Rapper.
La seconda traccia che vi faccio assaggiare è, secondo il mio divino parere (?), un miracolo di musica e testo, la prima altro non è che la versione rallentata della strumentale di “Parents Just Don’t Understand” (1988) di Dj Jazzy Jeff and The Fresh Prince (meglio conosciuto oggi come Will Smith), il secondo è una severa autocritica a sè stesso in stile Eminem. Mi pare congruo postarvi di seguito il video di “Parents Just Don’t Understand” poi quello di Rav “Me? Never”.
Arriviamo in scivolata alla fine della sfilza auditiva con un antipasto di “finger music” rappresentato dall’impronta “Channel F”, un tappeto avvincente sul quale si siedono comodi comodi i versi di Rav e Kill Bill: The Rapper.
Impattante a dir poco. Questi sono, per chi è avvezzo al genere, i 20 minuti più belli di quest’anno torbido e nefasto. Rav, come solgo dire io, “calcia il palese in rete”, mette a nudo i suoi problemi e disturbi mentali, il suo oscuro flusso di coscienza e la sua depressione come si stesse confidando con un amico fidato. Queste disfunzioni comunque non intralciano la sua prodigiosa creatività come beatmaker, considerando che, in venti minuti ci riassume musicalmente tutti gli stili dell’hip hop dalla fine degli anni ’80 fino al lo-fi tanto in voga oggi. Non posso assolutamente non citare l’apporto dei due complici di Rav, Scuare e Kill Bill The Rapper, che formano una click coesa e ben assortita. Ascoltatelo con la consapevolezza che, una volta entrati nello streaming non sono certo che ne riuscirete ad uscirne. (Filippo Fenara)
Siamo alle solite: vagabondo su Bandcamp, ascolto una delle migliori emsì del pianeta, cerco qualche informazione su di lei nel compiacente oracolo di “Lekkipiedia” ed ovviamente, non essendo Nappy Nina un’artista mainstream non trovo nulla, nemmeno una scarna citazione. Io sono uno che slalomeggia nell’inadeguatezza situazionale ma, una volta, credevo che Lekkipiedia fosse veramente la libera informazione che, per una volta nella storia, sarebbe stata imparzialmente a disposizione di tutti, ricchi, poveri, buoni, cattivi, pesci piccoli o squali. Purtroppo ho l’impressione che la politica del colosso enciclopedico del web ora verta a favorire chi si rende disponibile a cospicue “donazioni”, coprendo d’ignoto tutti coloro che non possono permettersele. Non è che non so come gira il mondo è che mi ostino a non accettarlo come regola, va contro il mio essere collettivista. Comunque. Nappy Nina, datemi retta, è una rapper eccezionale, con un flusso lirico extralusso, una tecnica di surfin’ sui curatissimi carpets che non si sentiva dai tempi di Missy Elliott, un’attitudine smodatamente cool, come si direbbe a Bologna, una gran cartola. Sul suo conto sono riuscito ad evincere che è nata ad Oakland per poi trasferirsi a Brooklin, ama i sandwiches farciti con il formaggio grigliato ed è un’esperta conoscitrice di alberi. Pertinente. Allora, amici miei, lasciamo parlare la musica e andiiamo ad ascoltare “Good To Me” e cominciate a rendervi conto come si muove con dimestichezza la ragazza su una base di derivazione jazz swing per nulla facile.
Molto valido anche il video, lei mi fa impazzire, ma mai quanto l’impronta struggente “What You Want”, dove Nina ci delizia con metriche dalle traiettorie imprevedibili, un altro emsì guest sputa una strofa sul tappeto come fosse benzina sul fuoco e, nel finale, chiude in grandeur un solo di tromba che, tutte le volte, mi lascia con gli occhi lucidi e un accenno di mescola (termine felsineo che indica il movimento inconsulto delle labbra di bambini in procinto di mettersi a piangere).
Asciughiamoci le guance e proseguiamo con un’altra hit sotterranea come “Those Things” dove il serpeggiante flusso di nina viene intervallato dalla voce paradisiaca di Anna Wise, sconsigliata agli eiaculatori precoci.
Questo, amici miei, è un gran bell’album nella sua interezza, vario e curato, condito dai talenti e dai virtuosismi di strada di musicisti di prim’ordine. Quindi armatevi della spotiffa, cliccate su “Dumb Doubt” e selezionate la pericolosissima ed irreversibile opzione “eternal repeat”. (Filippo Fenara)
El Jazzy Chavo è un produttore / emsì di stanza ad Atene in Grecia ma di evidenti origini ispaniche. Fine della bio. Ho fatto conoscenza con questo musicista su Bandcamp e mi ha attratto subito l’album strumentale “Echoes From Another Cosmogony” perchè i beats di chiara derivazione hip hop sono più consistenti del tungsteno e più titanici del titanio (…ma che è, una recensione di heavy metal?), le atmosfere spaziali ed eteree sono semplici, ipnotiche ma dal retrogusto artigianale, molto meno xanax e molto più strada rispetto alla lisciviosa chillout da chiringuito sulla spiaggia caraibica. Visto che in rete non ci sono maggiori informazioni su El Jazzy Chavo, direi di passare subitaneamente all’ascolto della particolare “No Flowers At My Balcony” con un carpet originale e campionamenti jazz di vibrafono e flauto che creano un’atmosfera surreale.
Molto più misteriosa ma sempre trasportata da un battito coriaceo è invece “Black Queen”, dall’atmosfera notturna e lunare, coadiuvante gli stati d’ipnosi progressiva e vera e propria musa ispiratrice per autori che traggono il senso dalla musica piuttosto che dalle immagini.
Ora che parecchi di voi avranno lo sguardo perso nel vuoto (più o meno come i gatti che fissano punti sulle pareti senza un apparente motivo) è ora di darvi il colpo di grazia con la triste e malinconica “Blue” che vi accompagnerà con incedere kafkiano verso un sonno profondo oppure libererà il vostro subconscio dalle sbarre degli schemi sociali per comporre la più bella poesia della vostra vita.
A me quest’album piace. Minimale, ruvido, semplice e diretto nel comunicare e costruire siti immaginifici. Forse ascoltarselo tutto di fila prestandogli particolare attenzione potrebbe appesantirvi un po’, ma come sottofondo per le vostre attività (soprattutto creative) quotidiane mi pare essere una degnissima colonna sonora. (Filippo Fenara)
Non è sufficiente questa piccola e umile recensione per fare un resoconto della musica dei Clipping, un trio di Los Angeles formato dai produttori William Hutson e Jonathan Snipes e dal formidabile emsì Daveed Diggs. Il loro suono viene comunemente definito come hip hop sperimentale, io vi noto invece una certa attinenza con il free jazz, per cui conveniamo di chiamare il loro genere con il neologismo free hop. In sintesi si tratta di rap adattato metricamente a tappeti di musica elettronica industriale estrema, lontana dal boom bap e molto più vicina ad un certo tipo di sperimentazione digitale fatta di suoni atipici per l’hip hop con distorsioni, cacofonie, sintetizzatori, campionamenti inusuali e architetture illineari delle tracce: il risultato, soprattutto grazie alla versatilità del Sig. Diggs, che liricamente è in grado di cambiare marcia e calzare con stile le creazioni irregolari del duo Hutson e Snipes, è di difficile primo ascolto ma, nel tempo, diventa una droga dalla quale risulta difficile affrancarsi. Oggi vi scriverò del loro ultimo album, “Visions Of Bodies Being Burned“, ma prima tengo a precisare che, per quanto il loro non sia un genere di facile ascolto, hanno comunque milioni di streams sulla spotiffa e, il loro lavoro del 2016, “Splendor & Misery” si è piazzato al secondo posto della celeberrima classifica degli album hip hop stilata da Billboard.
Cercherò di condurvi ad un ascolto graduale, non è un compito facile, credetemi, ma “Say The Name”, la seconda impronta dell’album, potrebbe risultare una delle tracce più convenzionali e dirette.
Come secondo indizio d’ascolto propongo la seguente “Something Underneath” che mette in risalto le doti e qualità metriche dell’emsì Daveed Diggs, che fornisce una prestazione da Champions. Purtroppo ho trovato sulla tubatura solo una versione audio non ufficiale sottotitolata in spagnolo (?), la mia etica mi sconsiglia di pubblicarla per rispetto degli artisti, per cui vi linko l’impronta sulla spotiffa qui.
Terminiamo questa suite di ascolti con l’epica “Enlacing”, penultima traccia del disco.
Tiriamo le somme: i Clipping sono quanto di più nuovo ed estremo la scena hip hop (ma non solo) possa proporre, il fulcro della loro etica musicale è un grande esempio di quanto l’arte contemporanea in generale abbia ampissimi margini di sviluppo e miglioramento per quanto un certo conservatorismo consociativista commerciale cerchi di frenarne l’inarrestabile ascesa. (Filippo Fenara)
Intanto per scrivere di Common ci vuole tanto rispetto, per un artista attivo dagli anni ’90 che ha collaborato con la creme della black music mondiale fino a portare, durante il presidio di Obama, l’hip hop alla Casa Bianca. Ha dato alle stampe da pochissimo il suo ultimo fenomenale album “A Beautiful Revolution Pt. 1” un lavoro dove l’hip hop cosciente del rapper di Chicago mostra la sua maturità sia come contenuti (Common oltre che rapper ed attore è conosciuto per il suo attivismo ed impegno contro le ingiustizie umane e sociali) che musicalmente, senza perdere le radici del suo suono ma infiorescendo in incroci con suoni più pop nell’accezione migliore del termine.
Dopo un’introduzione / manifesto della “rivoluzione della bellezza”, si parte in sordina con “Fallin'” un beat agghindato da un ipnotico campione di chitarra ed un flusso in rilasso, senza la necessità di ostentare tecniche liriche che, onestamente, sarebbero in suo possesso; il ritornello cantato da una voce femminile rende tutto tremendamente black. Si prosegue con l’arrembante hip hop dal flavour retrò di “Say Peace” e la hit funky dance “What Do You Say (Move It Baby)” che farebbe scuotere le anche persino ai manichini dell’oviesse. “Courageous” è la mia preferita, non la commento ma ve la faccio direttamente ascoltare di seguito.
Coinvolgente la seguente “A Place In This World”, un’altra perla da densflo con un ritornello ricamato dalla talentuosa Pj e le barre fiammanti di Common. La seguente “A Riot In My Mind” comincia con un solo di chitarra jazz e vede la collaborazione di un certo Lenny Kravitz: il sound è anni ’90 le rime brillano come stelle e il ritornello del rocker è indiscutibilmente apicale. Prima della conclusiva outro c’è ancora spazio per un brano carico di speranza e dolcezza, “Don’t Forget Who You Are” arricchito dai vocalizzi della “solita” Pj. Ascoltiamolo.
Insomma, un album molto bello che non mancherà di avvicinare all’hip hop anche i meno avvezzi pur non scendendo a compromessi troppo costosi, l’ascolto è consigliato a tutti quelli che amano la musica e vogliono ascoltare qualcosa che parli di rivoluzione attraverso tracce che convogliano buonumore. (Filippo Fenara)
Vi parlai già degli Angry Blackmen (qui), il duo di hip hop sperimentale anti suprematista e provocatorio, che aveva attirato l’attenzione con l’E.P. “Talkshit!“, un lavoro fatto con i fiocchi tra tappeti acustici curatissimi e barre dall’allure ironica evidente oltre che tecnicamente ineccepibili. Ora (con un cospicuo ritardo) esce “Headshots!” il loro primo album: almeno loro lo definiscono così, ma 16 minuti di musica mi danno la stessa sensazione degli 80 gr di pasta che suggerisce il dietologo. A parte ciò si tratta di un ottimo lavoro, le basi sono originali e trascinanti, le rime non sono certo da meno, con l’unico rischio di parafrasare i RUN DMC in un riferimento pericoloso ed inutile. A conti fatti, una raffica di proiettili lirici di cui andiamo ad ascoltare i ben 2 minuti e 15 secondi dell’eccezionale ouverture.
Proseguiamo con le sabbie mobili colleriche di “Rage!”.
Terminiamo con lo scricchiolante e caustico tappeto acustico di “Atomic!”.
Che dire…bello, potente, ironico e curato, consigliato, a causa della brevità, per eiascoltatori precoci. (Filippo Fenara)
Proemio: paragonando l’hip hop con la birra. Ci sono quelli che entrano in un locale e chiedono una birra (come viene) e questo è il rap anni ’90. Ci sono quelli che entrano in un locale e chiedono una Peroni (birra industriale) e questa è la trap. Infine ci sono quelli che entrano in un locale e chiedono una birra artigianale, sapendo che potranno scegliere tra un’infinità di stili e ricette e questo è il rap contemporaneo. Tutto ciò per dire che tra lo spessore latitante della trap ed i suoni che hanno fatto un’epoca c’è una nicchia di emsìs che sta evolvendo in una direzione più artigianale senza cadere nel conservatorismo anzi, implementando la varietà d’innumerevoli sfumature che questo genere può offrire. Tra questi innovatori uno dei portabandiera è sicuramente Open Mike Eagle che, con l’album appena dato alla luce, dimostra che si può evitare di fare trap, raccontare baggianate e copiare i bigs dei ’90 producendo un rap consapevole, equilibrato ed allo stesso tempo variegato. Il suo segreto risiede nelle capacità interpretative (il ragazzo è anche un attore) e nelle strutture metriche sempre diverse per adattarsi meglio a beats desueti. Già la traccia di apertura è una buona dimostrazione di dimestichezza lirica.
A seguire proporrei al vostro ascolto un’impronta particolare, “Sweatpants Spiderman”, tipo una birra kolsch, leggera, dolce ma con quel lievito che la rende diversa da tutte le altre birre…
Piaciuta? Secondo me è carinissima, ma è il momento di passare a “Everything Ends Last Year” un brano dolcissimo nel quale il tappeto è quasi senza battito, una stranezza che rientra nella sperimentalità riuscita di Open Mike Eagle, tant’è che non si trova nemmeno su youtube per cui vi lascio il link della spotiffa qui.
Infine, sempre dalla spotiffa, vi slaccio il link qui di “Fifty Twenty Feet Ocean Nah” dove il nostro si esibisce in una live jam con un bambino, Little A$e, il risultato è inenarrabile.
Tirando le somme, un album bello dal principio alla fine, gradevole anche per i non habituè del rap, non mi rimane che consigliarvene l’ascolto qui, soprattutto se siete stanchi di scimmiottatori d’hip hop d’oltreoceano. (Filippo Fenara)
Dopo l’ottimo ritorno dei Public Enemy e degli Arrested Developement, un altro titano dell’hip hop anni ’90 ovvero Paris (a cui dedicai un articolo in passato), è tornato massiccio nel momento in cui la comunità nera si sta rivoltando all’ondata di razzismo, alle politiche di presidenti incompetenti, alle dittature modello Cina che la pandemia sta avvalorando, alla disperazione ed impoverimento del popolo apparentemente incapace di reagire. Torna con “Safe Space Invader” a trent’anni dal grande classico “The Devil Made Me Do It” e lo fa nella maniera migliore, senza tradire le proprie peculiarità musicali per cedere al mercato e recitando la parte dell’oratore rivoluzionario e fiero, toccando temi scottanti senza paura in un vis a vis con qualsiasi tipo di autorità.
Per quanto riguarda i tappeti sonori sui quali Paris stende rime al napalm, bisogna dire che l’artista ha scelto la strada della coerenza, i suoni sono gli stessi dei ’90, il funk è presente come esoscheletro di tutta la parte sonora, ma quello che importa sono le tematiche e i contenuti che l’artefice di Guerrilla Funk vuole comunicare al mondo incitando alla rivolta, basta dare un’occhiata al primo singolo estratto da questo album
A conti fatti un album splendido per gli ammiratori di Paris, per chi dalla musica cerca relax, atmosfere spaziali e liriche poetiche, allora meglio di no. (Filippo Fenara)
Per quelli come me, negazionisti della televisione, “Arrested Devepeloment” non è il titolo di una fortunata serie netflix, ma il nome di una band di hip hop conscio e freschissimo capitanata dal rapper Speech che nel 1992 pubblicò un album, “3 years, 5 months and 2 days in the life of…” che girò per ben quattro volte la boa del disco di platino ed il successivo “Zingalamaduni” (parola che in Swahili significa “alveare della cultura”), sebbene non raggiunse il successo del precedente, a mio parere rimane una pietra miliare dell’afro rap alternativo e di largo respiro culturale. Come i Public Enemy (recensiti qui) e Paris (che recensirò a breve), dopo anni di smarrimento identitario e musicale, scioglimenti, cambi di formazione e un naturale logorio dato dall’età, anche gli Arrested Developement, in questo 2020 problematico e bisognoso di consapevolezza, risorgono dalle ceneri con un album nuovo di zecca “Don’t Fight Your Demons“. Più che un’opera d’arte lo definirei un disco “necessario”, dove l’esperienza della vecchia scuola funge da dito che indica la luna alle nuove generazioni disorientate da indotti commerciali e propositi consumistici accompagnati da musichette e liriche senza fondamenti umani e sociali. “Necessario” perchè la musica di questo disco ha salde radici nell’incrocio delle culture, perchè i carpet sotto le fluenti barre sono pertinenti all’attitudine civica e poco scendono a compromessi con i modi delle mode, perchè è vero che rispetto al passato si è persa un po’ di spensieratezza, quant’è altrettanto vero che l’ottimismo, di questi tempi, pare un sorriso che sbatte violentemente contro un manganello. Speech e la sua balotta sono tornati in prima linea con stile e maturità e, di questo album che vi consiglio di ascoltare attentamente, vi posto di seguito il primo e finora unico video estratto.
Posted at 13:00 by Filippo Fenara, on Settembre 29, 2020
In questo momento di brutalità e razzismo dilaganti, la comunità nera mondiale, a cominciare dagli artisti (che, vista la loro sensibilità e visionarietà solitamente si espongono in prima linea, a differenza dei pagliacci da intrattenimento distrattivo…), si sta ricompattando e sta mettendo in atto una vera e propria insurrezione per la difesa dei propri diritti oltraggiati. Vi ho scritto degli anti suprematisti Angry Blackmen, vi ho recensito le ribelli meraviglie di attitudine nero vestita del collettivo anonimo Sault (che sia di esempio per tutte le facce da tolla che sovraespongono la propria fioca e fasulla immagine per un like in più) ed oggi, a sorpresa, mi accorgo che i miei idoli degli anni ’90, i Public Enemy, sono ritornati con brutale determinazione sulla scena con un nuovo disco pieno di illustri ospiti della vecchia scuola (Ice T, PMD, Run DMC, Beastie Boys, George Clinton, Nas, Questlove e tanti altri) e, nel momento in cui infuria la battaglia, sebbene se lo potessero permettere, non si sono dati al divano con i gattini ma hanno organizzato un assalto alle sabbie mobili delle istituzioni che, onestamente il background trap non si può assolutamente permettere. Intanto c’è da segnalare, dopo 20 anni, il ritorno dei P.E. alla storica etichetta Def Jam, la coproduzione dell’album con il “divino” Dj Premier ex Gangstarr (lo storico dj Terminator X abbandonò definitivamente la scena hip hop nel 2002) e la quantità devastante di megawatt sparate contro la piramide fintodemocratica del potere dominante. Dopo un brano di dissing nei confronti di Trump intitolato “State Of The Union” ed un singolo, rifacimento dell’iconica “Fight The Power”, ora è giunto in trincea questo formidabile disco di hip hop vecchia scuola dove si ritrova un Chuck D in splendida forma, un Flavor Flav sempre più “fuori” e una sfilata d’incazzosi ospiti che stracciano barre come fosse carta velina. Non mi dilungo, la controffensiva è partita, vi mollo il link dell’album sulla spotiffa qui e, di seguito un remix di “Public Enemy number won” che, di questo capolavoro, risulta essere una delle mie favorite.
Posted at 13:00 by Filippo Fenara, on Settembre 23, 2020
All’interno della rubrica “Presentando Rap Presentando” non ho mai scritto o recensito qualche album dei cosiddetti “producers” ovvero coloro che, attraverso l’elettronica, creano tappeti strumentali che possono fare brano a sè stante (nell’esempio del trip hop o della chillout) oppure essere proposti a rapper e cantanti per diventare il giusto carpet delle loro esibizioni canore. Spesso queste basi vengono messe in repeat ed utilizzate dai “ruchis” (ragazzini alle prime armi) per scrivere rime o affrontarsi con gli altri della balotta in “battaglie” d’improvvisazione rap, personalmente essendone avvezzo sin dagli anni ’80, trovo le strumentali hip hop come fonte d’ispirazione anche per scritti più “tradizionali” come poesie, acrostici, giochi di parole e quant’altro. Comincio a parlare di produttori partendo dall’album “Ghetto Echoes” di Jira ><, un lavoro particolare, tetro, rannuvolato, fuligginoso, ma allo stesso tempo potenziato da beats energici e da campionamenti (soprattutto jazz) che ammantano l’atmosfera di psichedelia digitale. Uno dei brani che preferisco è proprio quello che dà il titolo all’album, ovvero “Ghetto Echoes“, una perfetta ma allo stesso tempo straniante miscela di campionamenti jazz, effetti speciali ed un groove non troppo presente ma calzante nel contesto. Altra traccia che mi sento di segnalarvi è “Ocean“, vera e propria musa per noi devoti delle parole. Questo produttore di Los Angeles ha dato alla luce parecchi album strumentali dal diverso timbro, alcuni più vecchia scuola, altri chillout ed alcuni vicini al trip hop, comunque sia tutti di pregevole fattura. Se volete ascoltare altro (o acquistare, perchè no?) di Jira ><, il profilo Bandcamp dell’artista lo trovate qui. (Filippo Fenara)
Posted at 16:00 by Filippo Fenara, on Settembre 21, 2020
Come ormai consuetudine, mi trovo a rappresentare degli artisti che vivono una fase embrionale della loro carriera, per cui le notizie su di loro reperibili in rete sono una rarità. Vabbè. Gli Angry Blackmen sono un duo di Chicago, formatosi nel 2017 che ha all’attivo un E.P. dal titolo “Talkshit!” (2019) e sta per dare alle stampe (2 Ottobre 2020) il suo seguito “Headshots!” prenotabile in formato digitale qui. Questo potentissimo duo propone un hip hop sperimentale, sia come metriche e rime sia come suoni utilizzati nei carpet elettronici che risultano alquanto inusuali. Nella musica degli Angry Blackmen c’è sicuramente hip hop, c’è altrettanto sicuramente la lotta (a volte ironica) contro i suprematisti bianchi, ma ci sono anche intenzioni punk, sfumature grime, il tutto miscelato con un’intensità espressiva comburente. Il mio pezzo preferito dll’E.P. è “Bullshit!“, ma visto che il loro primo ed unico video ufficiale è quello con la canzone “Riot!” non mi resta che postarvelo di seguito, in attesa di parlare di nuovo degli Angry Blackmen agli inizi di Ottobre. (Filippo Fenara)
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Posted at 18:30 by Filippo Fenara, on Settembre 19, 2020
Buckwild è uno storico (nel senso che è mio coetaneo, vi ho già detto tutto…) dj / produttore nativo del Bronx a New York, che qualche mese fa ha dato alle stampe (se ancora così si può dire) il suo ultimo lavoro solista intitolato “Music Is My Religion” dove si presenta in copertina nelle vesti di un messia di piatti, campionatori e casse roventi. Andando per gradi, posso già anticiparvi che l’album è una bomba assoluta per gli amanti della vecchia scuola, ma una menzione particolare va fatta per l’iniziale anthem “Bronx Bars Banned” una carica d’esplosivo acustico, dove gli emsì ospiti sminano di rime un tappeto sonoro da premio nobel, da mettere in repeat e lasciarla in tale status per qualche settimana. Purtroppo c’è anche un particolare nefasto che riguarda questa traccia: Fred The Godson (Riposa In Pace), uno dei rappers presenti in “Bronx Bars Banned”, all’inizio della sua strofa ammette di essere provato dalle cure necessarie per contrastare il COVID, poi si rende protagonista di barre epiche, irripetibili. La malattia se lo porterà via poco dopo, ma lui fino alla fine, ha dimostrato skill, passione e dedizione votiva alla ciccia dalla doppia acca. I negazionisti tacciano. Il resto del lavoro di Buckwild è, come vi dicevo prima, imperdibile soprattutto per chi è cresciuto con l’hip hop degli anni ’90, carpets ruvidi come carta vetrata e rime dure senza compromessi, un alto livello tensivo dall’inizio alla fine, dovuto anche alla presenza di emsì guests non conosciuti ma di assoluto valore. Ora vi lascio “Bronx Bars Banned”, fatene buon uso…
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Questo è hip hop. O forse hard bop. Comunque avanguardia. Beats sudici come le periferie dimenticate di New York, come i vicoli cosparsi di spazzatura dove homeless e clockers mandano avanti la loro esistenza tra ratti che sbiettano dietro i bidoni dell’immondizia e la notte che passa di mano in mano come soldi e bustine chiuse con la cucitrice. In questo rigurgito capitalista emergono voci, capionamenti, scratches, grida, risate sarcastiche e barre caustiche sputate in cielo con una voce roca e vissuta, comunque autentica, una sorta di collage di suoni che va a pescare dagli anni ’60 giungendo alla fine del millennio passato, ma che si propone come reale alternativa alla trap nell’ evoluzione dell’hip hop globale. Gli echi sotterranei del flusso di Al.Divino fanno il pieno di occulte e palesi realtà vissute e decantate con roca schiettezza, le produzioni di Raticus sono assolutamente “buona la prima” e le discipline dell’hip hop come il rap e il turnablism sono eseguite con maestria artigiana e imbellettate di campionamenti sempre attinenti al contesto. Senza ripetermi oltre, chi ama e sostiene l’hip hop non dovrebbe fare a meno di ascoltare “Cryptex Murderous Material“ un album del 2019 che rischia di passare inosservato ma la cui esegesi porta alla scoperta di contesti musicali che, nell’ultimo ventennio, sono rimasti vivi e roventi sotto la cenere del mercato dominato da una trap che oramai ha rinunciato ad essere uno spin off dell’hip hop vecchia scuola per finire nel velenoso e conformante abbraccio dell’industria musicale. (Filippo Fenara)
Agosto è un mese abbastanza anonimo per quanto riguarda le uscite discografiche, si lasciano solitamente sopire gli ultimi sussulti delle Jerusalemmate e Gabbanate prima di ripartire verso una nuova stagione musicale. Eppure, fendendo le acque torbide dei canali sotterranei di bandcamp, non è inconsueto pescare qualche artista interessante, in questo caso il rapper Sadistik con il suo ultimo lavoro di hip hop alternativo, “Elysium“.
Sadistik, il cui vero nome è Cody Foster, è un rapper bianco originario di Seattle, autore di uno stile di hip hop diafano, ipnotico, spesso accompagnato da frasi di pianoforte o arpeggi di chitarra acustica, voci narranti femminili e testi autoriflessivi che non scadono nell’autocontemplazione. Il flusso è sicuramente in debito con la scuola di Eminem tant’è che la canzone che apre il disco “Canary In a Mine” ha un che delle atmosfere di “Stan” pur risultando una traccia bellissima con un battito che piega le mani al portiere.
Come avete potuto ascoltare, l’intreccio di strumenti acustici, campionamenti e voci narranti crea un perfetto ambiente per le barre stilisticamente ineccepibili dell’emsì di Seattle, che dà prova dei suoi solistici tecnicismi nella mezzana “Life Is Just (An Interlude)” nella quale Sadistik parte per una discesa libera su un pendio breve ma ipnotico lungo il quale sviluppa un flusso valanga che lascia, sul finale, l’ascoltatore intontito dall’intensità dell’intercalare del rapper dai capelli lunghi.
A conti fatti “Elysium” si colloca a metà tra un album ed un extended play, l’ascolto è inusuale e curato, il suono è foriero di spicchi emotivi di livello “pro”, ora vado sulla spotiffa e mi ascolto i lavori passati di questo artista, chissà che non ci ritroviamo su queste frequenze…presentando rappresentando. (Filippo Fenara)
Young Rame, è un emsì 22enne che proviene dalla Barona, sobborgo milanese prolifico di fermenti hip hop dal quale provengono, per esempio, Oro Bianco (del quale scrissi in occasione del suo album “Capotavola“) e il “Re”, l’ormai ultrafamoso rapper Marracash che tuttora continua a rappresentare e citare nei suoi testi questo quartiere problematico e popolare dell’estrema periferia di Milano sud. Se Marracash è il “Re”, nel contesto rap meneghino Young Rame viene già definito il “Principe” della Barona e secondo il mio ascolto di “Le Jeune Simba” l’appellativo è più che meritato, nel disco si sente innanzitutto l’influenza aggressiva delle sonorità hip hop d’oltralpe, la varietà tematica e compositiva sono encomiabili, con impronte che ricordano gli anni ’90 alternate ad altre più vicine alla trap, fino all’ evocativa finale “Come Un Panamera” che ho utilizzato per accompagnare la mia cosa “Luna Parco“, a mio parere traccia tracotante d’urbanistica poesia sopra un carpet originale ed epico. Il flusso di Young Rame s’avvale di tecnicismi ben oliati, le barre si succedono nel rollio di parole azzeccate e crude, la lista delle feature (Marracash, un potente Jack La Furia, Emis Killa, il franco-casertano Speranza, ecc…) aumenta la varietà e la ricchezza di tutto il lavoro, il risultato è un album che scotta. Vi potrei citare le tracce del lavoro che ho preferito, ma vi consiglio di ascoltare il platter nella sua interezza perchè merita, davvero.
Con il pollice alzato per il “Principe Della Barona” vi lascio con un brano rappresentativo come “Frère” con Jake La Furia. (Filippo Fenara)
Oddissee è un emsì di Washington DC, afroamericano di origini sudanesi, che ha iniziato la propria carriera solista nel 2010 con il clamore di alcuni mixtape che gli hanno consentito di diffondere il suo nome per tutta Washington ed oltre, fino ad arrivare ad essere conosciuto e (aggiungo giustamente) rispettato a livello internazionale. Per sua stessa dichiarazione, gli artisti che lo hanno ispirato sono i “mostri sacri” degli anni ’90, ovvero A Tribe Called Quest, Eric B & Rakim e De La Soul, va da sè che le sue liriche non trattino di droghe, omicidi e nefandezze varie (sennò, suppongo io, sarebbe più famoso e sputtanato) ma attecchiscono a livello sociale e, oltremodo, sulla creme musicale, grazie alla tecnica sopraffina del nostro. Lo reputo il miglior rapper vivente, le sue capacità ritmiche, il suo culto del battito, non hanno eguali e questo “Odd Cure” ne è la prova più elegante e matura che ci possa essere. Slappatevi questo “The Cure” un condensato di funk con un flusso apocalittico.
Avvalendosi anche di musicisti non prettamente linkati con il mondo hip-hop come Olivier St. Louis e Sainte Ezekiel, il disco guarda oltre i confini di genere, creando meravigliosi incroci che rendono l’ascolto un’eiaculazione, purtroppo precoce, vista la durata ridotta del platter.
“Still Strange”, invece , accoglie la suadente voce di Priya Ragu e la chitarra di Sainte Ezekiel, uno smorzone di quelli da ballare abbracciati, ma anche una canzone da atmosfera.
Che dire, 30 e poco più minuti di eden acustico, un’oasi nella coprofonia che impera, se proprio non facesse per voi, siete liberi di suicidarvi con il tortellone dell’estate estatemebene!!!
Con la traccia che avete appena ascoltato, la rapper “esoterica” di casa a Johannesburg in Sud Africa, Yugen Blakrok (assieme a Kendrick Lamar e Vince Staples), ha toccato gli apici del suo successo commerciale, essendo stata scelta proprio da Lamar per una strofa nel pezzo che completa la colonna sonora del film “Black Panther”, tratto dall’omonimo fumetto edito dalla Marvel negli anni ’60. La soundtrack è stata per diverso tempo ai vertici delle classifiche di tutto il mondo con milioni di streams e riconoscimenti importanti.
Io, invece, ho conosciuto Yugen su Bandcamp per la presentazione del suo ultimo lavoro assieme al dj e produttore Kanif, “Anima Mysterium” ed ho apprezzato il flusso mistico della rapper sui tappeti acustici nebbiosi, volutamente sporchi e palesemente anni ’90 del sopracitato dj. Con suoni che rinfrescano la memoria su quello che considero il periodo d’oro dell’hip hop, scratches eleganti, presenti sempre nel momento e nel modo giusto, liriche che oscillano tra la stregoneria tribale, la lotta sociale contro il razzismo e l’intolleranza, l’esoterismo di stampo “globale” e retaggi religiosi, sono il marchio di fabbrica di questo duo. E due sono gli album pubblicati da Yugen, oltre al sopracitato “Anima Mysterium” non si può certamente skippare il platter di debutto del 2013 “Return Of The Astro Goth” del quale vorrei invitarvi ad ascoltare la seguente impronta
Brano veramente importante dove i ruoli dei due artisti si completano in una combinazione equilibratissima di suoni, parole e contenuti.
Personalmente preferisco però l’ultimo album che, pur mantenendo il background di Yugen e Kanif mi sembra più maturo, più professionale e, soprattutto può vantare una registrazione di livello che mancava al disco precedente. La prossima, per il suo incedere inesorabile e lo sgorgare ipnotico di Yugen, è la mia favorita
Sicuramente la “chiamata” di Kendrick Lamar ha dato una svolta alla carriera di Yugen che, comunque, pare non essere cambiata di una virgola e continui assieme al suo fido dj a portare avanti una missione musicale e sociale che merita rispetto, posso annoverare questi due personaggi tra le “Persone Oltre Le Pose” soci ad honorem di “Le Mie Cose”. Vi lascio con l’ultimo missile, “Carbon Form” per chiudere questo simposio lirico e acustico.
Stemperare, spesso ne ho bisogno, soprattutto quando fuori ci sono 90°. Ernia, milanese ex “socio” di Tedua e Ghali nella controversa “Troupe D’Elite”, dal 2016 ha intrapreso la carriera solista con l’album “Come Uccidere Un Usignolo” (applausi scroscianti per il titolo) per poi proseguire con “68” (numero dell’unico autobus che passa nel quartiere QT8 dove il nostro è cresciuto) e il recentissimo “Gemelli” che non sono ancora riuscito ad addomesticare nelle mie cuffie ma dal quale ho estratto questa chicca per la snicca che ultimamente canticchio sottovoce durante le mie esibizioni ed evoluzioni nel magazzino dell’iper. Il testo è lievemente impattante, un filino maschilista, appena autocelebrativo, se non altro non parla di droga, sennò sai che noia…
Sotto il video ho postato il testo, potrebbe urtare la vostra sensibilità, ma se non avete delle circolari cerebrali, vi farete un sacco di risate e, come me, ripeterete interiormente il ritornello dalla sedia del vostro ufficio, sulla soglia del negozio oppure bloccati in auto in tangenziale mentre vi recate ad espiare peccati che altri hanno commesso o commetteranno.
U2
Degli U2 io sono Bono (Bono)
Giro insieme alla mia Minnie (Minnie)
Non ti umilio, sono buono
Me ne sbatto dei consigli (Eh, sì)
Un fiore in bocca come un hippie (Ehi)
Intorno ho solamente pupe (Ehi)
Per il bottino sono Lupin (Uh)
Per la figa sono Beep Beep
Non mi spreco in complimenti (No)
Con le tipe quasi non parlo
Che l’uomo accarezza il cavallo (Non lo sanno)
Solo quando vuole montarlo (Eh, sì)
Trap italiano tutti pazzi
Ma poi ai concerti tutti cazzi (Ah)
Faccio un pezzo d’amore che attira
Così chiavo, Kaioken triplo (Okay)
Ti apro il culo in due
Uovo all’occhio di bue
Come Uccidere Un Usignolo (Woh)
Col cazzo fuori alle feste dei rapper perché mica si succhia da solo (Woh)
Siamo tutti bro
Però confronto a me siete i fratelli scarsi come Radish (Ah)
Vi fate un anno a divertirvi, poi tornate tutti in riga come gli Amish
Muovo la testa in macchina
Siete come i tre porcellini, se soffio batto tutta quanta la vostra casa discografica
Scusa, fra’, lo stile non capita
Scrollavo benza’ fuori dalla tanica
Pensa ora Ernia quante se ne carica
Però chiamavo la tipa chiedendo di fare l’SOS ricarica (Non più, fra’)
Degli U2 io sono Bono (Bono)
Giro insieme alla mia Minnie (Minnie)
Non ti umilio, sono buono (Buono)
Me ne sbatto dei consigli (Seh)
Un fiore in bocca come un hippie (Seh)
Intorno ho solamente pupe (Seh)
Per il bottino sono Lupin (Uh)
Per la figa sono Beep Beep (Uh)
Degli U2 io sono Bono (Bono)
Giro insieme alla mia Minnie (Yah)
Non ti umilio, sono buono (Ehi)
Me ne sbatto dei consigli
Un fiore in bocca come un hippie
Intorno ho solamente pupe
Per il bottino sono Lupin
Per la figa sono Beep Beep
Non mi batti, fra’, sei un asino
È fantascienza tipo Asimov
Se sto in ansia per qualcosa
Mi tocco il maniglione anti panico
Metti il mio santino a fianco al letto (Eh, sì)
Così puoi fare sesso protetto (Ah)
Tipo che faccio da butta dentro
Come il gorilla che è all’ingresso
Sdraiato sul futon
Anche penso che fiuto, un cane da tartufo
Annuncio il disco, tu ti fai cupo
Resti solo un Morgan che non trova il Bugo
Scusa, non mi scuso
Tu hai comprato Prada
Io ho comprato casa facendo ‘sta roba
Firmo il contratto Universal
L’ora pure in dirigenza proprio come Boban
Fratelli Karamazov, l’ego
Mentre mangio platano
E penso che mi appendo un platino
Volo come Pegaso
Avversari planano
Una brutta cera, bro, spero che almeno ti paghino (Spero, sì)
Degli U2 io sono Bono
Giro insieme alla mia Minnie (Minnie)
Non ti umilio, sono buono (Buono)
Me ne sbatto dei consigli (Me ne sbatto)
Un fiore in bocca come un hippie (Hippie)
Intorno ho solamente pupe (Pupe)
Per il bottino sono Lupin (Ehi)
Per la figa sono Beep Beep (Ehi)
Degli U2 io sono Bono (Bono)
Giro insieme alla mia Minnie (Minnie)
Non ti umilio, sono buono (Buono)
Me ne sbatto dei consigli (Ehi)
Un fiore in bocca come un hippie
Intorno ho solamente pupe
Per il bottino sono Lupin (Uh)
Per la figa sono Beep Beep
Nel 1990 avevo la bellezza di 17 anni, una bellezza relativa, considerato che proprio in quel periodo, a seguito di eventi violenti e letalmente spiacevoli che mi coinvolsero, s’innescò la deflagrazione del nucleo del mio pensiero che tutt’ora mi accompagna col suo collage coacervico di emozioni pittoresche ed assortite.
Nel 1990 Oscar Jackson Jr, noto con lo pseudonimo di Paris, subito dopo essersi laureato in economia, pubblicò il suo primo album hip hop, “The Devil Made Me Do It”, un rap conscio con una forte carica di denuncia sociale e politica, conseguenza della sua appartenenza alle Pantere Nere e alla Nation Of Islam. Gli argomenti esplicitati nelle liriche del disco trattavano soprattutto della violenza dei poliziotti razzisti (sono passati trent’anni ma il tema è purtroppo attualissimo) e delle dispari opportunità che dividevano gli Stati Uniti in due comunità ben distinte dal colore della pelle.
Torniamo a me. Ero arrabbiato e confuso, in una situazione paradossale: mi identificavo molto di più con le comunità afroamericane, che con le persone che mi circondavano a Bologna, anche io avevo ottimi motivi per sentirmi travolto dall’intolleranza e dall’ipocrisia della gente che ero costretto a malincuore a frequentare, covando il sogno di un riscatto molto simile alla vendetta.
Un bel giorno, mi capitò tra le mani “The Devil Made Me Do It” e il matrimonio d’affinità fu scontato: la puntina dei Technics 1200 non finiva più di percorrere quei solchi di vinile ed io, pazientemente, scaricavo analogicamente i testi (cuffie, penna e fogli) e li imparavo a memoria per gridarli in faccia al mondo al quale mi rifiutavo (…ed anche questo è un tema purtroppo attualissimo) di appartenere. La prima lezione che imparai fu che il problema razzismo non riguarda solamente il colore della pelle, ma coinvolge le stigmate culturali che ognuno di noi si porta attraverso l’esistenza, non l’ho più chiamato razzismo bensì intolleranza e divide in maniera netta l’arrogante ignoranza dall’illuminata sensibilità.
I contenuti rappresentano la dignità di qualsiasi artista. Low Low, a sedici anni, era considerato il ragazzino prodigio dell’hip hop, più che altro per la sua tecnica di flusso sopraffina e per i testi cinici, sempre sul bordo del male, della cattiveria d’intenzioni e dell’autocelebrazione del proprio profilo da gangsta in erba (mai termine fu più appropriato…), venne assoldato dalla Honiro, poi una crescita continua fino ad approdare ad una major, logica conseguenza della carriera di chi sogna di vivere di musica. Questo “Dogma 93” è un disco più morbido dei precedenti, se non altro nei suoni e in qualche spezzone canticchiato, ma ne sto scrivendo soprattutto perchè ora l’inestimabile energia di questo artista si è incanalata in contenuti coscienti e maturi, ovviamente senza dimenticare gli anni sulla strada e senza perdere quel modo immediato e crudo nel raccontarsi e raccontare. Da operaio installato nel magazzino di un supermercato, mi sento anche di approvare quei motivetti canticchiati che ti rimangono in testa e leniscono la fatica e la chirurgica noia dei neon e del tempo che stenta a passare: merito soprattutto della partecipazione al disco di Gaia, Holden, Erika Lei e Luna, quattro voci suadenti ed azzeccate che impreziosiscono l’album di melodie e parole riproducibili all’infinito. Continua a leggere →
Qualche parola e video per un ottimo album del 2017 di hip hop classico messo in piedi dall’emsì romano RAK, facente anche parte del collettivo Barracruda. Di questo disco mi è piaciuta molto l’immediatezza espressiva, un flusso “senza filtri”, a volte introspettivo, in altre songs più “cosciente” nel realizzare realtà deprecabili come l’ipocrisia diffusa, le logiche da porticato e la vita di comunità nei rioni popolari della metropoli capitale. Continua a leggere →
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